di Alessandro Morelli
La nascita del Governo Draghi è stata salutata da molti commentatori come la conseguenza di un epocale fallimento della politica. Lo stesso Presidente del Consiglio, tuttavia, nelle sue dichiarazioni programmatiche illustrate al Senato il 17 febbraio, ha sostenuto una diversa interpretazione della vicenda che lo vede coinvolto in prima persona, in base alla quale nessuno avrebbe fatto “un passo indietro rispetto alla propria identità ma semmai, in un nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione, … uno avanti nel rispondere alle necessità del Paese, nell’avvicinarsi ai problemi quotidiani delle famiglie e delle imprese che ben sanno quando è il momento di lavorare insieme, senza pregiudizi e rivalità”.
La formazione del terzo Esecutivo più votato in Parlamento della storia repubblicana (dopo il Governo Monti, nato nel 2011, e il Governo Andreotti IV, nato nel 1978) può, dunque, essere vista come il frutto di un responsabile atto di solidarietà politica. Se davvero sia questo lo spirito lo si vedrà nei prossimi mesi, nei quali la nuova maggioranza sarà chiamata ad assumere decisioni importanti per il Paese e a discutere e approvare le riforme richieste dall’Europa. Tra queste, tuttavia, non rientrano – e non a caso non sono stati richiamati nel discorso programmatico del Presidente del Consiglio – gli interventi necessari dopo la riduzione del numero dei parlamentari, prevista dalla legge costituzionale n. 1 del 2020. Interventi che, invece, appaiono altrettanto urgenti e la cui realizzazione necessiterebbe proprio di quello spirito solidale che parrebbe aver dato vita all’attuale Governo.

Mi riferisco, innanzitutto, alla legge elettorale.
Il decreto legislativo n. 177 del 2020 consente l’applicazione della normativa elettorale vigente anche con la nuova composizione delle Camere, ma ha introdotto collegi uninominali molto ampi, determinando un notevole abbassamento del livello di rappresentatività e, quindi, una sovrarappresentazione della maggioranza politica. La riduzione del numero di deputati da 630 a 400 e di quello dei senatori elettivi da 315 a 200 ha causato un incremento del rapporto del numero degli abitanti per deputato da 96.006 a 151.210 e quello per ciascun senatore da 188.424 a 302.420 unità (Dossier della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, Riduzione del numero dei parlamentari, A.C. 1585-B, XVIII legislatura, 7 ottobre 2019).
È diminuita così – e non di poco – la capacità degli elettori di influire sull’esito dell’elezione, mentre i candidati avranno bisogno, alle prossime elezioni, di un numero considerevolmente più elevato di preferenze per essere eletti. L’attuale legge elettorale, il Rosatellum-bis (legge n. 165 del 2017), prevede, inoltre, liste bloccate e consente candidature multiple, il che, unitamente alla ridotta composizione delle Camere, determina un potere enorme in capo alle segreterie dei partiti (L. Trucco).
Mi riferisco, in secondo luogo, ai regolamenti parlamentari.
Le fonti che disciplinano l’organizzazione e il funzionamento delle Camere attendono da tempo di essere riscritte ma adesso una loro riforma organica è necessaria e indifferibile: serve a consentire il corretto funzionamento delle Assemblee legislative e ad assicurare la rappresentanza delle minoranze nello svolgimento delle funzioni parlamentari.
Mi riferisco, infine e soprattutto, al sistema delle garanzie costituzionali.
Se l’attuale sistema elettorale rimanesse inalterato o se addirittura fosse modificato in senso maggioritario (con l’introduzione di premi di maggioranza e clausole di sbarramento elevate), come qualcuno suggerisce di fare, sarebbe indispensabile cambiare almeno i quorum previsti dalla normativa vigente per l’elezione del Presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali di designazione parlamentare, dei componenti non togati del CSM e per l’approvazione delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali.
Attualmente, per l’elezione del Capo dello Stato è sufficiente, dal quarto scrutinio in poi, la maggioranza assoluta del Parlamento in seduta comune; per la designazione dei giudici costituzionali e dei componenti non togati del CSM scelti dal Parlamento, la maggioranza dei tre quinti rispettivamente dal quarto e dal terzo scrutinio in poi; per l’approvazione delle leggi costituzionali, infine, è sufficiente la maggioranza assoluta nelle seconde deliberazioni delle Camere (e il raggiungimento dei due terzi impedisce la richiesta del referendum).
Sono maggioranze che non bastano più. Occorrerebbe, in tutti i casi, rendere obbligatorio almeno il raggiungimento dei due terzi dei voti.
Si può continuare a coltivare il sogno (in realtà, a parere di chi scrive, soltanto una pericolosa chimera) di una democrazia maggioritaria, nella quale la maggioranza uscita dalle urne governi senza intralci per un periodo sufficientemente lungo da potersi assumere senza più alibi la piena responsabilità del proprio operato. Quello che però non si può fare, se si vuole continuare a vivere in una democrazia costituzionale, nella quale – come recita il primo articolo della nostra legge fondamentale – il popolo sia chiamato a esercitare la sovranità pur sempre nelle forme e nei limiti della Costituzione, è consegnare le chiavi del sistema delle garanzie alla maggioranza elettorale, rendendola, di fatto, legibus soluta e lasciando le minoranze prive di ogni diritto di partecipazione.