di Alessandro Morelli
La notizia che in Germania si sarebbe deciso di eliminare la parola «razza» dalla Costituzione e che il Governo Merkel starebbe lavorando a un disegno di revisione orientato in tal senso rappresenta un’occasione per riprendere i termini di una questione che periodicamente torna anche nel dibattito pubblico italiano.
La nostra Costituzione, infatti, analogamente alla Legge fondamentale tedesca, usa il termine «razza» nel primo comma dell’articolo 3, laddove afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge anche senza distinzioni «di razza». Già in Assemblea costituente, si discusse dell’opportunità d’impiegare un termine, che, come scrisse la comunità israelitica in un documento del tempo indirizzato alla stessa Costituente, era più adatto «ai cani e ai cavalli» e che si proponeva di sostituire con la parola «stirpe». Alla fine, si decise di lasciare il riferimento alla «razza» sulla base dell’intento (esplicitato da Meuccio Ruini, Presidente della Commissione dei 75 incaricata di elaborare il progetto di Costituzione) di reagire al razzismo dei regimi nazifascisti, che in Italia aveva raggiunto il suo culmine con l’approvazione delle leggi razziali. Al tempo, tuttavia, si presupponeva che il concetto di «razza» avesse una propria dignità scientifica e che non appartenesse soltanto al linguaggio comune.

Più di recente, diversi scienziati hanno messo in luce come tale concetto risulti ormai del tutto inappropriato a descrivere la diversità biologica umana (in questi termini, si sono espressi, in una Mozione del 2016, l’Associazione Antropologica Italiana e l’Istituto Italiano di Antropologia), in quanto inidoneo a ricostruire il rapporto antenato-discendente tra le popolazioni umane (compito principale della tassonomia), per cui sarebbe ormai pacifico che le differenze morfologiche tra i popoli siano di natura ambientale, ecologica (così si legge nell’Appello del 2014 di Olga Rickards e Gianfranco Biondi). In sostanza, non è considerato scientificamente corretto distinguere l’umanità in razze e si chiede di aggiornare in tal senso il testo della Costituzione repubblicana, adottando iniziative analoghe a quelle avviate ora in Germania o, qualche anno fa, in Francia, dove, nel 2018, un’analoga revisione ha ottenuto una prima approvazione.
Alcune proposte sono state presentate, in Italia, nel corso della passata legislatura: il disegno di legge costituzionale S. 2445 del 2016, che intendeva sostituire le parole «di razza», contenute nel primo comma dell’articolo 3 della Costituzione, con le parole «di etnia»; ancora prima, la proposta di legge costituzionale C. 2746 del 2014, che avrebbe aggiunto, nella medesima disposizione, subito dopo «di razza», le parole «di colore, di etnia». Da segnalare, poi, la proposta di legge ordinaria C. 3710 del 2016, che prevedeva, invece, la sostituzione del termine «razza» con «nazionalità» in tutti gli atti e i documenti delle pubbliche amministrazioni.
Non sono mancate, d’altro canto, voci autorevoli a sostegno dell’opportunità di mantenere il riferimento alla «razza» in Costituzione. A prescindere dalla correttezza scientifica del termine, la sua presenza nel testo della Legge fondamentale avrebbe soprattutto un valore storico, costituendo una traccia indelebile di una vicenda vergognosa, che esso contribuirebbe a tenere viva nella memoria collettiva. La permanenza del divieto di discriminazione razziale servirebbe, inoltre, ad ammonire dall’uso del concetto in senso dispregiativo e discriminatorio, visto che, pur non esistendo le razze, continua a esistere il razzismo.
Quanto alle proposte di revisione richiamate, si tratta di modifiche riguardanti la prima parte della Carta repubblicana, in riferimento alle quali la Corte costituzionale ha rivendicato da tempo la propria competenza a giudicare eventuali lesioni dei principi supremi dell’ordinamento.
Sembra potersi affermare, tuttavia, che la revisione dell’articolo 3 della Costituzione non sarebbe illegittima in questo caso, poiché non intenderebbe eliminare garanzie, ma aggiornare il linguaggio costituzionale in base ai più avanzati sviluppi delle conoscenze scientifiche. Un’eliminazione secca del riferimento alla «razza» susciterebbe dubbi d’incostituzionalità poiché potrebbe essere interpretata come una riduzione delle tutele costituzionali a presidio del principio di eguaglianza; al contrario, la sostituzione del termine con altri scientificamente più appropriati potrebbe contribuire a fare chiarezza e a esprimere un più preciso messaggio antirazzista. Da questo punto di vista, appare preferibile la sostituzione del termine all’aggiunta allo stesso di altre parole, come «etnia» e «colore». Una soluzione, quest’ultima, che potrebbe creare problemi interpretativi (se si accostassero le parole «etnia» e «colore» a «razza», quale sarebbe la denotazione residua di quest’ultima?).
Quella prospettata sarebbe una revisione simbolica (come hanno ben messo in luce Andrea Gratteri e Giovanni Andrea Sacco), volta a incidere sul processo d’integrazione sociale facendo leva sulla valenza culturale della Costituzione. Un intervento normativo del genere non sarebbe certo una novità: basti pensare all’introduzione nell’articolo 116 della Costituzione, avvenuta con la riforma del 2001, tra l’altro, anche dei nomi rispettivamente in tedesco e in francese delle Regioni Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta, funzionale a esprimere un messaggio di riconoscimento del valore delle minoranze linguistiche e d’integrazione delle stesse. L’espunzione del termine «razza» dal testo costituzionale sarebbe un intervento di “pulizia linguistica”, che potrebbe dare nuovi stimoli a iniziative istituzionali dirette a combattere il razzismo e le discriminazioni. Iniziative, queste ultime, comunque indispensabili per lo sviluppo di un dibattito pubblico sull’eguaglianza e sul valore della diversità. I simboli, infatti, possono funzionare soltanto nel contesto di più ampi processi di promozione culturale, risultando altrimenti del tutto irrilevanti.