di Claudia Bianca Ceffa
Nonostante l’incombere delle incognite legate alla novità della procedura, sinora mai portata a termine, dall’entrata in vigore della riforma costituzionale del 2001, dei timori per la tenuta della coesione sociale innescati dalle rivendicazioni in materia di residuo fiscale avanzate da alcune Regioni e infine dell’emergenza sanitaria di carattere pandemico che, naturalmente, ha riprogrammato l’agenda delle priorità del Governo, pare che l’attuazione dell’autonomia differenziata stia proseguendo in un lento ma costante percorso.
Questo almeno è quanto si può dedurre dal tenore delle dichiarazioni del Ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia rese in occasione dell’ultima audizione (30 settembre 2020) sullo stato di attuazione del regionalismo differenziato in Commissione parlamentare per le questioni regionali alla Camera, ove sono stati descritti i contenuti della versione definitiva della bozza di legge quadro per l’attivazione della “clausola di asimmetria”.
A dispetto, quindi, dei numerosi ostacoli, procedurali e di merito, che hanno caratterizzato l’incedere della corrente stagione di richieste regionali in materia di autonomia differenziata, sembra che il percorso per l’attivazione dello strumento previsto dall’art. 116, comma 3, Cost. sia destinato ad arricchirsi di un ulteriore tassello, rappresentato da una legge che dovrebbe fissare principi e criteri per una devoluzione di competenze legislative e amministrative costituzionalmente ricevibile.

Si ricorderà, infatti, come le attuali istanze per una maggiore autonomia inoltrate al Governo dalle tre regioni capofila (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) abbiano conosciuto momenti non solo di eccezionale accelerazione, dettati in particolare da una maggioranza politica favorevole durante il biennio 2018/2019, ma anche di brusca frenata dovuti in primis all’alimentarsi della polemica della cosiddetta “secessione dei ricchi”, teorizzata da alcuni autorevoli economisti e giuristi, e infine alla crisi del primo Governo Conte.
Fino a quel momento, infatti, la prospettiva della devoluzione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” sembrava avere avuto concrete opportunità di inveramento, anche in seguito all’approvazione dei cosiddetti “pre-accordi” del 28 febbraio 2018 da parte del Governo Gentiloni e della firma il 25 febbraio 2019 degli Accordi sulla parte generale dell’intesa concordata con le tre Regioni capofila. Questi ultimi avevano in particolare rappresentato un momento di eccezionale avanzamento per il progetto dell’autonomia differenziata, essendo concentrati sull’individuazione specifica delle materie sulle quali ottenere maggiore autonomia e su alcune indicazioni procedurali propedeutiche al trasferimento, coordinamento e monitoraggio dell’implementazione delle nuove competenze attribuite.
Aveva però scatenato numerosi timori per la tenuta della coesione sociale, proprio in quel documento, l’art. 5 nella parte in cui, nel determinare il passaggio dal criterio della “spesa storica” a quello dei “fabbisogni standard”, stabiliva una clausola di salvaguardia a favore delle Regioni differenziate grazie alla quale, nel caso in cui ciò non fosse stato realizzato entro tre anni dall’approvazione dei decreti di trasferimento, l’ammontare delle risorse assegnate per l’esercizio delle nuove competenze non sarebbe potuto essere inferiore al valore medio nazionale pro-capite della spesa statale per l’esercizio delle stesse.
Una simile previsione, stante la presenza nell’Accordo generale della clausola di invarianza finanziaria e del divieto di introdurre un incremento di pressione fiscale sui contribuenti delle Regioni richiedenti, uniti ai dati della Ragioneria generale dello Stato 2017 da cui si traeva il dato che le tre Regioni capofila presentavano una spesa pro-capite inferiore alla media nazionale, aveva condotto gran parte degli studiosi a prefigurare che la fonte di reperibilità delle risorse necessarie a colmare il gap economico sarebbe arrivata presumibilmente dalle spese destinate al finanziamento delle funzioni nelle restati Regioni ordinarie, con conseguente pregiudizio per la soddisfazione dei diritti di prestazione, in primo luogo sociali.
La crisi di governo nell’agosto 2019 ha archiviato definitivamente gli avanzamenti fino a quel momento conseguiti e con l’insediamento del Governo “Conte-bis” il tema dell’autonomia differenziata è stato ripreso in termini assai diversi. Partendo, infatti, dal presupposto che per l’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, Cost. fosse opportuno dare prima un seguito legislativo agli artt. 117, 118 e 119 Cost., l’ultima tessera di questo complesso mosaico avente ad oggetto l’autonomia differenziata italiana è stata l’apertura di un nuovo dibattito sull’elaborazione di un progetto di legge quadro propedeutico a incanalare il processo di asimmetria entro i binari dei vincoli costituzionali di solidarietà interregionale (art. 119 Cost.) e di unità ed indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.).
Tale progetto, sulla cui opportunità di adozione nelle forme della legge ordinaria sono già state spese parole critiche in dottrina – stante la sua incapacità di “blindare” una fonte di analogo rango, per di più atipica e rinforzata, quale quella rappresentata dalla legge di recepimento dell’intesa siglata con la Regione interessata – nelle intenzioni del Ministro proponente dovrebbe costituire una cornice di riferimento entro la quale elaborare le istanze, passate e future, avanzate dalle Regioni.
Al netto del possibile aggravarsi dell’emergenza sanitaria che potrebbe determinare uno slittamento sull’ipotizzato calendario dei lavori che prevede una discussione in Parlamento del d.d.l. entro la fine di novembre 2020, pare interessante allo stato dell’arte esprimere una valutazione non solo sulla necessità di un simile provvedimento ma anche su quanti e quali nodi il progetto di legge quadro Boccia sia stato in grado, al momento, di toccare ed eventualmente sciogliere nella prospettiva dell’attuazione di quella che è stata definita la “Cenerentola” del Titolo V della Costituzione.
Nel discutere dell’opportuna esistenza di uno strumento attuativo dell’art. 116, comma 3, Cost. è necessario ricordare, in primis, come proprio il carattere ermetico della stessa disposizione costituzionale sia stata causa in passato di tutta una serie di dubbi interpretativi sull’attuazione della clausola di asimmetria, concernenti ad esempio la modalità di presentazione dell’atto regionale d’iniziativa, le forme di consultazione degli enti locali, l’efficacia temporale dell’intesa (incluse le modalità della sua verifica) e il non meno importante ruolo del Parlamento durante l’intero procedimento. In questo senso una disciplina generale e organica di attuazione dell’art. 116, comma 3, Cost., al netto delle opinioni che ritengono la medesima avente carattere autoapplicativo, richiederebbe probabilmente l’inquadramento entro una legge costituzionale, ovvero entro una fonte realmente in grado di spiegare una sicura efficacia vincolante nei confronti degli attori istituzionali e, soprattutto, delle fonti normative da questi ultimi prodotte nel processo di differenziazione.
In questo senso, allora, la scelta del Governo di procedere con una legge di natura ordinaria può forse essere letta come l’intenzione di creare uno strumento probabilmente più ad uso interno, da intendersi come prontuario per realizzare un’operazione di filtro rispetto alle richieste provenienti dalle regioni, tale da scremare subito quelle ritenute eccessive.

Proseguendo con una riflessione sui nodi problematici del regionalismo differenziato, sebbene al momento non sia stata ancora formalmente divulgata la versione definitiva del testo, il disegno di legge quadro si presenta composto da due soli articoli aventi ad oggetto l’obiettivo della definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP), l’attribuzione delle materie e il percorso di decentramento delle altre funzioni amministrative (art. 1) e la procedimentalizzazione del percorso per la stipulazione delle intese (art. 2). Partendo da quest’ultima norma deve rilevarsi come il progetto di legge quadro non abbia voluto (o potuto) affrontare la questione del ruolo da assegnare al Parlamento in sede di approvazione della legge di devoluzione dell’autonomia differenziata, avendo preferito rimettere tale scelta alla libera determinazione del Legislatore, il cui apporto viene disciplinato solo nella fase antecedente alla stipulazione dell’intesa e limitato alla trasmissione di valutazioni da rendersi entro sessanta giorni dall’invio dello schema di intesa da parte dell’Esecutivo.
Dunque, al netto di un sicuramente opportuno coinvolgimento preliminare del Parlamento in ordine ai contenuti della bozza di intesa oggetto di negoziazione (che può, però, essere bypassato laddove non intervenga entro i termini assegnati), appare chiaro come il disegno di legge quadro non sia intervenuto su uno dei più controversi nodi procedurali emersi in sede di interpretazione dell’art. 116, comma 3, Cost., non avendo fornito risposte in ordine alla possibile emendabilità del disegno di legge di approvazione dell’intesa.
Con riguardo, invece, al primo articolo avente ad oggetto le modalità di attribuzione delle nuove competenze, si subordina il trasferimento di funzioni relative alle materie concernenti i livelli essenziali delle prestazioni (sanità, istruzione, assistenza sociale e trasporto pubblico locale) alla previa determinazione dei LEP, mentre si afferma l’immediata trasferibilità delle funzioni amministrative per cui non si profila la necessità della previa determinazione dei LEP.
In tale sede si avverte chiara la lezione appresa in occasione delle scorse trattative durante il primo Governo Conte, quando gli Accordi sulla parte generale dell’intesa e, in particolare, il già ricordato art. 5 avevano ingenerato un allarme per la tenuta dei meccanismi di solidarietà e di perequazione territoriale.
Stabilendo, infatti, che il presupposto di ogni trasferimento di competenza in materie socialmente sensibili sia condizionato al superamento dei criteri di spesa storica verso i fabbisogni standard e alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, dovrebbe fugarsi (si auspica) ogni rischio di una possibile “secessione dei ricchi” da parte delle Regioni differenziate.
In questo senso, l’orizzonte della reale attuazione di un passaggio definito “chiave” nella realizzazione dell’autonomia differenziata quale quello, per l’appunto, della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, sembra essere tracciato dall’inserimento dei LEP stessi fra gli indicatori di priorità nei criteri di valutazione del Recovery Fund. Infatti, il Ministro Boccia ha dichiarato di voler utilizzare lo strumento approntato dall’Unione europea per finanziare gli interventi di gestione dell’emergenza sanitaria anche per sopportare i costi che inevitabilmente deriveranno in capo allo Stato dalla fissazione dei livelli di quantità e qualità delle prestazioni necessarie all’uguale soddisfacimento dei diritti civili e sociali sul territorio nazionale. Considerando che, a oggi, il vero nodo da sciogliere per la fissazione dei LEP (e, dunque, dei presupposti più generali per l’attuazione di un regionalismo differenziato pienamente rispettoso della Costituzione) pare sia l’immane sforzo finanziario necessario a correggere gli squilibri nella prestazione dei diversi servizi fra i territori, ci si può domandare se davvero il Recovery Fund, affiancando la futura legge quadro, potrà consentire di trovare la “quadra” nel processo di attuazione del regionalismo differenziato.