Cosa cambiare del Titolo V?

di Alessandro Morelli

L’anniversario della nascita delle Regioni a statuto ordinario, i cui consigli furono eletti per la prima volta nel giugno del 1970, non poteva cadere in un anno più nefasto.

La conflittualità tra Governo e Regioni riscontratasi nella gestione dell’emergenza sanitaria e i personalismi e gli eccessi di alcuni Presidenti regionali (i “governatori” lasciamoli negli Stati Uniti…) stanno alimentando un diffuso clima di nuovo centralismo, che rischia di mettere in discussione ben più del processo di attuazione del regionalismo differenziato (il quale, se si riavviasse, dovrebbe comunque svolgersi in forme adeguate a garantire il rispetto dei principi di solidarietà e di unità economico-sociale).

Sempre più voci si levano a sostegno di un drastico ridimensionamento del ruolo delle autonomie regionali (ad esempio, in materia sanitaria) e di una decisa centralizzazione delle competenze, magari attraverso l’introduzione di una “clausola di supremazia”.

In questo senso è orientato il disegno di legge costituzionale S. n. 1825, presentato il 22 maggio 2020 dai senatori Parrini e Pinotti e attualmente all’esame della Commissione Affari costituzionali del Senato. Il testo prospetta l’aggiunta all’art. 117 della Costituzione di un comma che recita: “Su proposta del Governo e previo parere della Conferenza tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, la legge dello Stato può disporre nelle materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Uno strumento che ricorda la clausola di necessità tedesca (che, però, a differenza di quanto previsto dal progetto in questione, non può essere esercitata nelle materie di potestà residuale dei Länder).

Intento della proposta è, secondo quanto si legge nella relazione di accompagnamento, quello di completare il Titolo V della Costituzione, introducendo uno strumento che dovrebbe rendere “ragionevolmente flessibili i vincoli connessi agli elenchi di materie di cui all’articolo 117 della Costituzione”. Nella medesima relazione si precisa, poi, che “per evitare che l’introduzione della clausola di supremazia determini una curvatura centralistica del sistema, è opportuno bilanciarne l’istituzione con la costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze e con la previsione del vincolo di un parere preventivo della Conferenza Stato-regioni quando il Governo intenda far valere la suddetta clausola”. Si prevede così anche l’introduzione in Costituzione di un art. 116-bis, a norma del quale “La legge istituisce la Conferenza tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e la Conferenza tra lo Stato, le città e le autonomie locali, per realizzare la leale collaborazione e promuovere accordi e intese tra i livelli di governo. Le Conferenze si riuniscono in sede unificata qualora siano chiamate a esprimersi su un medesimo oggetto”.

Tre considerazioni.

La prima è che, come nella stessa relazione di accompagnamento si sottolinea, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha cercato di rimediare alla mancanza di strumenti di flessibilità nel nuovo Titolo V, introducendo il meccanismo della “chiamata in sussidiarietà” e diversi altri criteri derogatori al sistema costituzionale delle competenze legislative. Non è chiaro, tuttavia, quale impatto potrebbe avere l’introduzione della “clausola di supremazia” sull’assetto dei rapporti tra Stato e Regioni faticosamente delineato dalla Corte nel corso degli ultimi due decenni.

La seconda osservazione attiene alla proposta, in sé non disprezzabile, della costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze, che costituisce oggi il principale luogo di raccordo tra Stato e Regioni. Non sembra, in verità, che tale revisione potrebbe davvero compensare la “curvatura centralistica” probabilmente provocata dall’introduzione della “clausola di supremazia”. E, peraltro, il rilancio del sistema delle Conferenze – per il quale non è detto che basti la costituzionalizzazione, considerate le numerose disposizioni costituzionali rimaste finora inattuate – dovrebbe eventualmente coordinarsi con le due proposte di legge costituzionale C. n. 2697 e S. n. 1960, presentate rispettivamente alla Camera e al Senato l’1 e il 2 ottobre 2020, che prevedono l’introduzione di un bicameralismo differenziato, con la presenza in Senato di 21 parlamentari eletti dai consigli regionali e da quelli delle province autonome di Trento e di Bolzano.

La terza riflessione attiene al quadro complessivo delle riforme in cantiere. Se si prova a comporre il puzzle, mettendo insieme le distinte proposte di revisione del testo costituzionale al vaglio delle Camere, l’impressione che si ricava è quella di un processo riformatore orientato verso una riduzione degli spazi di autonomia territoriale e un contestuale rafforzamento del Governo centrale: ciò, dopo la riduzione del numero dei parlamentari, dovrebbe suscitare qualche preoccupazione per la tenuta del sistema democratico. D’altro canto, la differenziazione (piuttosto blanda su questo versante) del bicameralismo, prevista dai disegni di legge costituzionale presentati dal Pd a ottobre, non appare sufficiente a compensare gli effetti delle altre innovazioni previste.

Nulla, dunque, dovrebbe essere toccato? Non esattamente.

Il Titolo V del 2001 presenta vistosi difetti di scrittura, che hanno dato non poco lavoro alla Corte costituzionale, soprattutto (ma non solo) riguardo all’articolazione delle competenze legislative. Su questo versante, sarebbe utile una serie di interventi correttivi, idonei a fare chiarezza e a ridurre le ragioni del contenzioso tra Stato e Regioni.

Un ulteriore intervento di livello costituzionale potrebbe interessare la disciplina sul regionalismo differenziato: si potrebbero ridurre le materie trasferibili alle Regioni (alcune di quelle attualmente previste sono logicamente non acquisibili da parte delle autonomie territoriali) e introdurre nell’art. 116 Cost. un rinvio a una legge, possibilmente costituzionale, per la definizione delle procedure di differenziazione, delle forme di controllo sull’esercizio delle nuove competenze da parte delle Regioni “differenziate” e dei modi di un’eventuale riassunzione da parte dello Stato delle funzioni devolute nel caso di un inefficiente esercizio delle stesse.

La costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze potrebbe essere utile, a patto che si accompagnasse a una serie di interventi ulteriori volti a rafforzare il ruolo di tali organismi, a ridurre il peso che negli stessi ha il Governo centrale e ad assicurare la trasparenza dei relativi lavori.

Riforme costituzionali “di sistema”, come appunto quella volta a introdurre una “clausola di supremazia”, andrebbero evitate, soprattutto in una situazione di emergenza come quella che stiamo vivendo. Anziché intervenire sulla Costituzione, si potrebbe mettere mano a una “legge quadro” proprio in materia di emergenza sanitaria: una disciplina che facesse finalmente chiarezza sulle competenze dei diversi livelli territoriali in situazioni straordinarie. Si dovrebbe avviare, infine, una seria discussione sulla forma di governo regionale, sull’elezione diretta dei Presidenti e sui benefici che le comunità regionali hanno effettivamente tratto, negli ultimi due decenni, dalla vigente organizzazione istituzionale delle maggiori autonomie territoriali.

Può una legge quadro essere un valido strumento per far “quadrare” il discorso sull’autonomia differenziata?

di Claudia Bianca Ceffa

Nonostante l’incombere delle incognite legate alla novità della procedura, sinora mai portata a termine, dall’entrata in vigore della riforma costituzionale del 2001, dei timori per la tenuta della coesione sociale innescati dalle rivendicazioni in materia di residuo fiscale avanzate da alcune Regioni e infine dell’emergenza sanitaria di carattere pandemico che, naturalmente, ha riprogrammato l’agenda delle priorità del Governo, pare che l’attuazione dell’autonomia differenziata stia proseguendo in un lento ma costante percorso.

Questo almeno è quanto si può dedurre dal tenore delle dichiarazioni del Ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia rese in occasione dell’ultima audizione (30 settembre 2020) sullo stato di attuazione del regionalismo differenziato in Commissione parlamentare per le questioni regionali alla Camera, ove sono stati descritti i contenuti della versione definitiva della bozza di legge quadro per l’attivazione della “clausola di asimmetria”.

A dispetto, quindi, dei numerosi ostacoli, procedurali e di merito, che hanno caratterizzato l’incedere della corrente stagione di richieste regionali in materia di autonomia differenziata, sembra che il percorso per l’attivazione dello strumento previsto dall’art. 116, comma 3, Cost. sia destinato ad arricchirsi di un ulteriore tassello, rappresentato da una legge che dovrebbe fissare principi e criteri per una devoluzione di competenze legislative e amministrative costituzionalmente ricevibile.

Si ricorderà, infatti, come le attuali istanze per una maggiore autonomia inoltrate al Governo dalle tre regioni capofila (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) abbiano conosciuto momenti non solo di eccezionale accelerazione, dettati in particolare da una maggioranza politica favorevole durante il biennio 2018/2019, ma anche di brusca frenata dovuti in primis all’alimentarsi della polemica della cosiddetta “secessione dei ricchi”, teorizzata da alcuni autorevoli economisti e giuristi, e infine alla crisi del primo Governo Conte.

Fino a quel momento, infatti, la prospettiva della devoluzione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” sembrava avere avuto concrete opportunità di inveramento, anche in seguito all’approvazione dei cosiddetti “pre-accordi” del 28 febbraio 2018 da parte del Governo Gentiloni e della firma il 25 febbraio 2019 degli Accordi sulla parte generale dell’intesa concordata con le tre Regioni capofila. Questi ultimi avevano in particolare rappresentato un momento di eccezionale avanzamento per il progetto dell’autonomia differenziata, essendo concentrati sull’individuazione specifica delle materie sulle quali ottenere maggiore autonomia e su alcune indicazioni procedurali propedeutiche al trasferimento, coordinamento e monitoraggio dell’implementazione delle nuove competenze attribuite.

Aveva però scatenato numerosi timori per la tenuta della coesione sociale, proprio in quel documento, l’art. 5 nella parte in cui, nel determinare il passaggio dal criterio della “spesa storica” a quello dei “fabbisogni standard”, stabiliva una clausola di salvaguardia a favore delle Regioni differenziate grazie alla quale, nel caso in cui ciò non fosse stato realizzato entro tre anni dall’approvazione dei decreti di trasferimento, l’ammontare delle risorse assegnate per l’esercizio delle nuove competenze non sarebbe potuto essere inferiore al valore medio nazionale pro-capite della spesa statale per l’esercizio delle stesse.

Una simile previsione, stante la presenza nell’Accordo generale della clausola di invarianza finanziaria e del divieto di introdurre un incremento di pressione fiscale sui contribuenti delle Regioni richiedenti, uniti ai dati della Ragioneria generale dello Stato 2017 da cui si traeva il dato che le tre Regioni capofila presentavano una spesa pro-capite inferiore alla media nazionale, aveva condotto gran parte degli studiosi a prefigurare che la fonte di reperibilità delle risorse necessarie a colmare il gap economico sarebbe arrivata presumibilmente dalle spese destinate al finanziamento delle funzioni nelle restati Regioni ordinarie, con conseguente pregiudizio per la soddisfazione dei diritti di prestazione, in primo luogo sociali.

La crisi di governo nell’agosto 2019 ha archiviato definitivamente gli avanzamenti fino a quel momento conseguiti e con l’insediamento del Governo “Conte-bis” il tema dell’autonomia differenziata è stato ripreso in termini assai diversi. Partendo, infatti, dal presupposto che per l’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, Cost. fosse opportuno dare prima un seguito legislativo agli artt. 117, 118 e 119 Cost., l’ultima tessera di questo complesso mosaico avente ad oggetto l’autonomia differenziata italiana è stata l’apertura di un nuovo dibattito sull’elaborazione di un progetto di legge quadro propedeutico a incanalare il processo di asimmetria entro i binari dei vincoli costituzionali di solidarietà interregionale (art. 119 Cost.) e di unità ed indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.).

Tale progetto, sulla cui opportunità di adozione nelle forme della legge ordinaria sono già state spese parole critiche in dottrina – stante la sua incapacità di “blindare” una fonte di analogo rango, per di più atipica e rinforzata, quale quella rappresentata dalla legge di recepimento dell’intesa siglata con la Regione interessata – nelle intenzioni del Ministro proponente dovrebbe costituire una cornice di riferimento entro la quale elaborare le istanze, passate e future, avanzate dalle Regioni.

Al netto del possibile aggravarsi dell’emergenza sanitaria che potrebbe determinare uno slittamento sull’ipotizzato calendario dei lavori che prevede una discussione in Parlamento del d.d.l. entro la fine di novembre 2020, pare interessante allo stato dell’arte esprimere una valutazione non solo sulla necessità di un simile provvedimento ma anche su quanti e quali nodi il progetto di legge quadro Boccia sia stato in grado, al momento, di toccare ed eventualmente sciogliere nella prospettiva dell’attuazione di quella che è stata definita la “Cenerentola” del Titolo V della Costituzione.

Nel discutere dell’opportuna esistenza di uno strumento attuativo dell’art. 116, comma 3, Cost. è necessario ricordare, in primis, come proprio il carattere ermetico della stessa disposizione costituzionale sia stata causa in passato di tutta una serie di dubbi interpretativi sull’attuazione della clausola di asimmetria, concernenti ad esempio la modalità di presentazione dell’atto regionale d’iniziativa, le forme di consultazione degli enti locali, l’efficacia temporale dell’intesa (incluse le modalità della sua verifica) e il non meno importante ruolo del Parlamento durante l’intero procedimento. In questo senso una disciplina generale e organica di attuazione dell’art. 116, comma 3, Cost., al netto delle opinioni che ritengono la medesima avente carattere autoapplicativo, richiederebbe probabilmente l’inquadramento entro una legge costituzionale, ovvero entro una fonte realmente in grado di spiegare una sicura efficacia vincolante nei confronti degli attori istituzionali e, soprattutto, delle fonti normative da questi ultimi prodotte nel processo di differenziazione.

In questo senso, allora, la scelta del Governo di procedere con una legge di natura ordinaria può forse essere letta come l’intenzione di creare uno strumento probabilmente più ad uso interno, da intendersi come prontuario per realizzare un’operazione di filtro rispetto alle richieste provenienti dalle regioni, tale da scremare subito quelle ritenute eccessive.

Proseguendo con una riflessione sui nodi problematici del regionalismo differenziato, sebbene al momento non sia stata ancora formalmente divulgata la versione definitiva del testo, il disegno di legge quadro si presenta composto da due soli articoli aventi ad oggetto l’obiettivo della definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP), l’attribuzione delle materie e il percorso di decentramento delle altre funzioni amministrative (art. 1) e la procedimentalizzazione del percorso per la stipulazione delle intese (art. 2). Partendo da quest’ultima norma deve rilevarsi come il progetto di legge quadro non abbia voluto (o potuto) affrontare la questione del ruolo da assegnare al Parlamento in sede di approvazione della legge di devoluzione dell’autonomia differenziata, avendo preferito rimettere tale scelta alla libera determinazione del Legislatore, il cui apporto viene disciplinato solo nella fase antecedente alla stipulazione dell’intesa e limitato alla trasmissione di valutazioni da rendersi entro sessanta giorni dall’invio dello schema di intesa da parte dell’Esecutivo.

Dunque, al netto di un sicuramente opportuno coinvolgimento preliminare del Parlamento in ordine ai contenuti della bozza di intesa oggetto di negoziazione (che può, però, essere bypassato laddove non intervenga entro i termini assegnati), appare chiaro come il disegno di legge quadro non sia intervenuto su uno dei più controversi nodi procedurali emersi in sede di interpretazione dell’art. 116, comma 3, Cost., non avendo fornito risposte in ordine alla possibile emendabilità del disegno di legge di approvazione dell’intesa.

Con riguardo, invece, al primo articolo avente ad oggetto le modalità di attribuzione delle nuove competenze, si subordina il trasferimento di funzioni relative alle materie concernenti i livelli essenziali delle prestazioni (sanità, istruzione, assistenza sociale e trasporto pubblico locale) alla previa determinazione dei LEP, mentre si afferma l’immediata trasferibilità delle funzioni amministrative per cui non si profila la necessità della previa determinazione dei LEP.

In tale sede si avverte chiara la lezione appresa in occasione delle scorse trattative durante il primo Governo Conte, quando gli Accordi sulla parte generale dell’intesa e, in particolare, il già ricordato art. 5 avevano ingenerato un allarme per la tenuta dei meccanismi di solidarietà e di perequazione territoriale.

Stabilendo, infatti, che il presupposto di ogni trasferimento di competenza in materie socialmente sensibili sia condizionato al superamento dei criteri di spesa storica verso i fabbisogni standard e alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, dovrebbe fugarsi (si auspica) ogni rischio di una possibile “secessione dei ricchi” da parte delle Regioni differenziate.

In questo senso, l’orizzonte della reale attuazione di un passaggio definito “chiave” nella realizzazione dell’autonomia differenziata quale quello, per l’appunto, della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, sembra essere tracciato dall’inserimento dei LEP stessi fra gli indicatori di priorità nei criteri di valutazione del Recovery Fund.  Infatti, il Ministro Boccia ha dichiarato di voler utilizzare lo strumento approntato dall’Unione europea per finanziare gli interventi di gestione dell’emergenza sanitaria anche per sopportare i costi che inevitabilmente deriveranno in capo allo Stato dalla fissazione dei livelli di quantità e qualità delle prestazioni necessarie all’uguale soddisfacimento dei diritti civili e sociali sul territorio nazionale. Considerando che, a oggi, il vero nodo da sciogliere per la fissazione dei LEP (e, dunque, dei presupposti più generali per l’attuazione di un regionalismo differenziato pienamente rispettoso della Costituzione) pare sia l’immane sforzo finanziario necessario a correggere gli squilibri nella prestazione dei diversi servizi fra i territori, ci si può domandare se davvero il Recovery Fund, affiancando la futura legge quadro, potrà consentire di trovare la “quadra” nel processo di attuazione del regionalismo differenziato.

Come riformare, cosa riformare

di Alessandro Morelli

Il fascino ben poco discreto delle riforme non accenna a diminuire. Continua a trovare ampio seguito l’idea che il mutamento delle regole giuridiche possa magicamente produrre quella palingenesi politica attesa da tempo. Un rinnovamento che, in verità, richiederebbe, più che sofisticate soluzioni istituzionali, un cambiamento radicale nel modo stesso di fare politica.

Non che le riforme non servano. L’assetto istituzionale esigerebbe anzi diversi interventi di ordinaria (e qualcuno anche di straordinaria) amministrazione. Il discorso sulle riforme andrebbe però sfrondato dalle connotazioni simboliche che lo rendono politicamente così attraente, ma che ne ostacolano, al tempo stesso, uno sviluppo razionale.

Nella campagna referendaria sul taglio dei parlamentari, la narrazione antipolitica e populista ha finito con l’incrociarsi con quella palingenetica. E nell’ambito di quest’ultima, alla revisione in gioco si è attribuita la capacità d’inaugurare una nuova stagione di riforme istituzionali.

La proposta presentata a inizio ottobre dal PD sembra voler dare consistenza alle promesse fatte nelle settimane che hanno preceduto il voto referendario. Ma qual è la logica che tiene i diversi interventi prospettati nel disegno di riforma?

Nella Relazione di accompagnamento al progetto, si afferma che l’intento principale sarebbe quello d’introdurre un “modello di parlamentarismo razionalizzato”, allo scopo di “rafforzare, coerentemente con i principi iscritti nella Costituzione del 1948, i meccanismi di funzionamento del rapporto di fiducia tra l’esecutivo e le Camere, garantendo una più sicura stabilità al Governo e restituendo al Parlamento il suo ruolo centrale nella definizione dell’indirizzo politico nazionale”. Subito dopo si aggiunge un’altra finalità: quella di realizzare “una puntuale e circoscritta differenziazione tra Camera e Senato in ordine alla composizione, alle funzioni e alle modalità di svolgimento dei lavori delle due assemblee, al fine di migliorare la qualità del procedimento legislativo e meglio rappresentare gli interessi territoriali con riferimento alle decisioni che più incidono sulle competenze delle regioni”. Un terzo obiettivo dichiarato è, infine, quello di “dare coerenza all’insieme delle innovazioni costituzionali iniziate con la riduzione del numero dei parlamentari e in corso di prosecuzione coi cosiddetti correttivi costituzionali già all’esame delle Camere”. Tra questi, l’abbassamento a diciotto anni dell’età degli elettori del Senato, il superamento del criterio della base regionale per l’elezione del Senato, la riduzione dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica in modo da mantenere il rapporto numerico originario con i parlamentari.

Non si può non essere d’accordo con almeno alcuni degli interventi prospettati, considerate la quantità e la varietà delle revisioni incluse nel progetto. Tuttavia, il problema sta proprio nella carenza di una “matrice razionalmente unitaria”, per usare una formula spesso impiegata dalla Corte costituzionale nei suoi giudizi sui referendum abrogativi.

Ci sarà tempo e modo di dedicare più approfondite analisi a ciascuna delle specifiche proposte avanzate. A una prima lettura, però, ciò che colpisce è l’assenza di un disegno chiaro sull’organizzazione e sul funzionamento delle Camere. Interventi diretti a introdurre un monocameralismo di fatto (quelli intesi a valorizzare il Parlamento in seduta comune) si affiancano ad altri volti a differenziare le Assemblee legislative, sul piano della composizione e delle competenze, e ad altri ancora funzionali a rendere le Camere più simili tra loro, accentuando il bicameralismo perfetto (i “correttivi costituzionali” ai quali rinvia la Relazione di accompagnamento).

Nel progetto ci sono almeno tre idee diverse del bicameralismo e sarebbe bene che si chiarisse, prima di tutto, verso quale di queste si vuole andare.

Se, poi, si guarda a tutte le altre proposte di revisione costituzionale, avanzate dalle forze politiche di maggioranza e di opposizione, il quadro complessivo delle riforme in cantiere appare estremamente confuso e in parte contraddittorio. Si va dal progetto di modifica degli articoli 71 e 75 della Costituzione (al momento in discussione presso la Commissione Affari costituzionali del Senato), volto a introdurre il referendum propositivo e a intervenire sul referendum abrogativo, con riguardo al quorum richiesto per la sua approvazione, a una proposta di legge, di iniziativa parlamentare, che abroga il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL), a una che prevede ancora la costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze e l’introduzione di una clausola di supremazia statale. A queste si aggiungono altre proposte volte a introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e a ridefinirne il ruolo, attribuendogli la direzione e la responsabilità della politica generale del Governo; a inserire in Costituzione la previsione di un quorum qualificato (pari alla maggioranza assoluta o a quella dei due terzi) per l’approvazione delle leggi elettorali della Camera e del Senato; a introdurre la tutela dell’ambiente tra i principi fondamentali della Costituzione.

L’avvio di un processo riformatore dagli esiti tanti incerti riporta con urgenza a un tema che non riesce a trovare spazio adeguato nel dibattito pubblico: quello della necessità di ripensare, prima di ogni altra cosa, lo stesso procedimento di revisione costituzionale. Da troppo tempo – da quando la maggioranza degli italiani sembrerebbe essersi convertita al “maggioritarismo” –, la procedura prevista dall’articolo 138 della Costituzione appare insufficiente a garantire il principio di rigidità della Legge fondamentale. Un principio, quest’ultimo, che non si pone in contrasto con il principio democratico, ma che anzi lo tutela e lo rafforza.

Certo, se si ritiene che la democrazia sia solo il governo della maggioranza, la rigidità costituzionale è semplicemente un intralcio (meno rigida sarà la Costituzione, più facile sarà per la maggioranza stessa adattarla alle proprie esigenze). Se però si ha un’idea diversa del principio democratico (più in linea con i dettami della Costituzione vigente) e si reputa che quest’ultimo prescriva un sistema nel quale la maggioranza legifera e governa nel rispetto delle minoranze e dei loro diritti, allora la rigidità acquista ben altro significato. In questa diversa prospettiva, infatti, l’aggravamento della procedura di revisione costituzionale consente una più ampia partecipazione al processo di modifica della Legge fondamentale dello Stato, quella che riconosce e garantisce le regole basilari del gioco politico e i diritti inviolabili della persona umana.

Occorrerebbe, innanzitutto, mettere in sicurezza l’attuale procedura di revisione costituzionale che, come le ultime esperienze hanno dimostrato, risulta più adatta a revisioni puntuali anziché a interventi di riforma ampia e organica della Costituzione. Con la riduzione del numero dei parlamentari, la maggioranza assoluta, prevista per l’approvazione delle modifiche costituzionali, non è più sufficiente: si dovrebbe prevedere come obbligatoria – almeno nelle ultime due delle quattro deliberazioni previste – la maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera. Il referendum, inoltre, dovrebbe essere consentito in tutti i casi e trasformato in un passaggio necessario del procedimento (come in altri paesi come l’Irlanda, la Danimarca, la Francia e l’Austria, dove è tale per le revisioni totali).

Ancora sull’esempio di altre esperienze straniere, si potrebbe, poi, pensare d’introdurre una seconda procedura alternativa, più rinforzata, per le riforme organiche, nel rispetto dei limiti assoluti alla stessa revisione (la forma repubblicana, i principi fondamentali e i diritti inviolabili): un iter che, ad esempio, potrebbe prevedere, subito dopo l’iniziativa, lo scioglimento delle Camere, l’indizione di nuove elezioni e l’attribuzione del compito di approvare la riforma alle nuove Camere.

Proseguendo lungo la via di un sano “riformismo benaltrista” (più che legittimo quando a essere discutibili sono le stesse finalità del processo di riforma promosso dalla maggioranza), si potrebbe pensare di correggere il tiro degli interventi, mirando non più soltanto al piano istituzionale ma anche a quello politico. E così potrebbe finalmente darsi attuazione all’articolo 49 della Costituzione sui partiti, con una legge che promuovesse in modo efficace l’adozione, da parte degli stessi, di un’organizzazione interna democratica. Un progetto ancora più ambizioso potrebbe essere quello di modificare la stessa disposizione costituzionale, adottando come modelli la Legge fondamentale tedesca, la Costituzione spagnola o quella portoghese, che prevedono espressamente che l’ordinamento interno dei partiti rispetti i principi della democrazia. Occorre valorizzare e potenziare adeguatamente i diritti di partecipazione politica dei cittadini, restituendo ai partiti il ruolo, assegnatogli dalla Costituzione, di formazioni intermedie necessarie al corretto funzionamento della democrazia rappresentativa. E, per far ciò, è necessario assicurarne la democraticità interna.

Se le forze politiche hanno sostenuto a larghissima maggioranza la riduzione del numero dei propri parlamentari, c’è forse speranza che la pressione di un’opinione pubblica consapevole e motivata possa indurli anche ad accettare regole che impongano loro di adottare un’organizzazione interna democratica.

Qualche riforma istituzionale, peraltro, potrebbe riguardare direttamente anche la grave situazione di emergenza determinata dalla diffusione del Covid-19, che ormai da parecchi mesi stiamo affrontando. Una condizione che, come mi è capitato di dire altrove, non dovrebbe ispirare l’adozione di riforme strutturali dell’ordinamento, poiché ciò che può andare bene in una situazione emergenziale risulta per lo più intollerabile in condizioni di normalità. A fronte dei continui conflitti tra Stato, Regioni ed enti locali – che pure dipendono da fattori politici sui quali il diritto non può fare molto – appare evidente, tuttavia, l’insufficienza della normativa in materia (quella relativa alla Protezione civile e quella sul Servizio sanitario nazionale), così come carente, sotto diversi profili, è anche l’impianto normativo definito negli ultimi mesi dall’Esecutivo per gestire l’emergenza che stiamo vivendo, un impianto che fa leva, com’è noto, sullo strumento del dpcm.

Una riforma di rango legislativo (non costituzionale, per i motivi che dicevo sopra) dovrebbe allora essere promossa anche in questo campo, per esempio, com’è stato proposto da un’autorevole dottrina, introducendo una legge-quadro in materia sanitaria idonea a definire, in modo chiaro, le competenze dei diversi livelli istituzionali nelle situazioni di emergenza.

La contrapposizione tra riformisti e conservatori è stata descritta spesso in modo caricaturale nel dibattito pubblico: i primi votati al cambiamento di un sistema istituzionale presentato come il peggiore dei mondi possibili; i secondi come grotteschi difensori di una costituzione mummificata, idolatrata come la “più bella del mondo”. Le cose non stanno così. È necessario capire, in un caso e nell’altro, cosa si voglia cambiare, come si intenda farlo e se c’è qualcosa che si desidera conservare. E, soprattutto, occorre provare a estendere il dibattito pubblico a temi centrali, che continuano a rimanerne fuori ma dalla cui trattazione non può prescindersi se si vogliono creare le condizioni per uno sviluppo sano delle istituzioni democratiche.