di Alessandro Morelli
L’anniversario della nascita delle Regioni a statuto ordinario, i cui consigli furono eletti per la prima volta nel giugno del 1970, non poteva cadere in un anno più nefasto.
La conflittualità tra Governo e Regioni riscontratasi nella gestione dell’emergenza sanitaria e i personalismi e gli eccessi di alcuni Presidenti regionali (i “governatori” lasciamoli negli Stati Uniti…) stanno alimentando un diffuso clima di nuovo centralismo, che rischia di mettere in discussione ben più del processo di attuazione del regionalismo differenziato (il quale, se si riavviasse, dovrebbe comunque svolgersi in forme adeguate a garantire il rispetto dei principi di solidarietà e di unità economico-sociale).
Sempre più voci si levano a sostegno di un drastico ridimensionamento del ruolo delle autonomie regionali (ad esempio, in materia sanitaria) e di una decisa centralizzazione delle competenze, magari attraverso l’introduzione di una “clausola di supremazia”.
In questo senso è orientato il disegno di legge costituzionale S. n. 1825, presentato il 22 maggio 2020 dai senatori Parrini e Pinotti e attualmente all’esame della Commissione Affari costituzionali del Senato. Il testo prospetta l’aggiunta all’art. 117 della Costituzione di un comma che recita: “Su proposta del Governo e previo parere della Conferenza tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, la legge dello Stato può disporre nelle materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Uno strumento che ricorda la clausola di necessità tedesca (che, però, a differenza di quanto previsto dal progetto in questione, non può essere esercitata nelle materie di potestà residuale dei Länder).

Intento della proposta è, secondo quanto si legge nella relazione di accompagnamento, quello di completare il Titolo V della Costituzione, introducendo uno strumento che dovrebbe rendere “ragionevolmente flessibili i vincoli connessi agli elenchi di materie di cui all’articolo 117 della Costituzione”. Nella medesima relazione si precisa, poi, che “per evitare che l’introduzione della clausola di supremazia determini una curvatura centralistica del sistema, è opportuno bilanciarne l’istituzione con la costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze e con la previsione del vincolo di un parere preventivo della Conferenza Stato-regioni quando il Governo intenda far valere la suddetta clausola”. Si prevede così anche l’introduzione in Costituzione di un art. 116-bis, a norma del quale “La legge istituisce la Conferenza tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e la Conferenza tra lo Stato, le città e le autonomie locali, per realizzare la leale collaborazione e promuovere accordi e intese tra i livelli di governo. Le Conferenze si riuniscono in sede unificata qualora siano chiamate a esprimersi su un medesimo oggetto”.
Tre considerazioni.
La prima è che, come nella stessa relazione di accompagnamento si sottolinea, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha cercato di rimediare alla mancanza di strumenti di flessibilità nel nuovo Titolo V, introducendo il meccanismo della “chiamata in sussidiarietà” e diversi altri criteri derogatori al sistema costituzionale delle competenze legislative. Non è chiaro, tuttavia, quale impatto potrebbe avere l’introduzione della “clausola di supremazia” sull’assetto dei rapporti tra Stato e Regioni faticosamente delineato dalla Corte nel corso degli ultimi due decenni.
La seconda osservazione attiene alla proposta, in sé non disprezzabile, della costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze, che costituisce oggi il principale luogo di raccordo tra Stato e Regioni. Non sembra, in verità, che tale revisione potrebbe davvero compensare la “curvatura centralistica” probabilmente provocata dall’introduzione della “clausola di supremazia”. E, peraltro, il rilancio del sistema delle Conferenze – per il quale non è detto che basti la costituzionalizzazione, considerate le numerose disposizioni costituzionali rimaste finora inattuate – dovrebbe eventualmente coordinarsi con le due proposte di legge costituzionale C. n. 2697 e S. n. 1960, presentate rispettivamente alla Camera e al Senato l’1 e il 2 ottobre 2020, che prevedono l’introduzione di un bicameralismo differenziato, con la presenza in Senato di 21 parlamentari eletti dai consigli regionali e da quelli delle province autonome di Trento e di Bolzano.
La terza riflessione attiene al quadro complessivo delle riforme in cantiere. Se si prova a comporre il puzzle, mettendo insieme le distinte proposte di revisione del testo costituzionale al vaglio delle Camere, l’impressione che si ricava è quella di un processo riformatore orientato verso una riduzione degli spazi di autonomia territoriale e un contestuale rafforzamento del Governo centrale: ciò, dopo la riduzione del numero dei parlamentari, dovrebbe suscitare qualche preoccupazione per la tenuta del sistema democratico. D’altro canto, la differenziazione (piuttosto blanda su questo versante) del bicameralismo, prevista dai disegni di legge costituzionale presentati dal Pd a ottobre, non appare sufficiente a compensare gli effetti delle altre innovazioni previste.
Nulla, dunque, dovrebbe essere toccato? Non esattamente.
Il Titolo V del 2001 presenta vistosi difetti di scrittura, che hanno dato non poco lavoro alla Corte costituzionale, soprattutto (ma non solo) riguardo all’articolazione delle competenze legislative. Su questo versante, sarebbe utile una serie di interventi correttivi, idonei a fare chiarezza e a ridurre le ragioni del contenzioso tra Stato e Regioni.
Un ulteriore intervento di livello costituzionale potrebbe interessare la disciplina sul regionalismo differenziato: si potrebbero ridurre le materie trasferibili alle Regioni (alcune di quelle attualmente previste sono logicamente non acquisibili da parte delle autonomie territoriali) e introdurre nell’art. 116 Cost. un rinvio a una legge, possibilmente costituzionale, per la definizione delle procedure di differenziazione, delle forme di controllo sull’esercizio delle nuove competenze da parte delle Regioni “differenziate” e dei modi di un’eventuale riassunzione da parte dello Stato delle funzioni devolute nel caso di un inefficiente esercizio delle stesse.
La costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze potrebbe essere utile, a patto che si accompagnasse a una serie di interventi ulteriori volti a rafforzare il ruolo di tali organismi, a ridurre il peso che negli stessi ha il Governo centrale e ad assicurare la trasparenza dei relativi lavori.
Riforme costituzionali “di sistema”, come appunto quella volta a introdurre una “clausola di supremazia”, andrebbero evitate, soprattutto in una situazione di emergenza come quella che stiamo vivendo. Anziché intervenire sulla Costituzione, si potrebbe mettere mano a una “legge quadro” proprio in materia di emergenza sanitaria: una disciplina che facesse finalmente chiarezza sulle competenze dei diversi livelli territoriali in situazioni straordinarie. Si dovrebbe avviare, infine, una seria discussione sulla forma di governo regionale, sull’elezione diretta dei Presidenti e sui benefici che le comunità regionali hanno effettivamente tratto, negli ultimi due decenni, dalla vigente organizzazione istituzionale delle maggiori autonomie territoriali.