La Carta à la carte

di Luca Dainotti *

Il 9 marzo è entrata in vigore la legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1 (G.U. n. 44 del 22 febbraio 2022) recante “Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente”, approvata nella seconda votazione dalle due Camere con la maggioranza dei due terzi dei componenti e quindi non soggetta a referendum confermativo.

La legge costituzionale interviene su due distinti punti della Carta: in primo luogo introduce tra i “principi fondamentali” della Costituzione, posti negli articoli da 1 a 12, finora mai modificati, la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni (art. 9); quindi integra e rafforza questa innovazione, sostanzialmente con la previsione che l’esercizio della attività economica debba conformarsi a tale nuovo principio (art. 41); questa non potrà quindi svolgersi in modo da recare danno alla salute e all’ambiente, potendo inoltre essere indirizzata a fini non solo sociali ma anche ambientali. Infine la legge reca, come d’abitudine, una clausola di salvaguardia delle competenze legislative riconosciute alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano dai rispettivi statuti.

Un voto poco meno che unanime (468 favorevoli, 1 contrario, 6 astenuti) ha concluso alla Camera l’iter legislativo; si è trattato di un percorso tutto sommato abbastanza “scorrevole” per un testo di modifica costituzionale che, almeno sui media generalisti, è emerso e ha avuto risonanza solo nella sua fase ultima, in certo qual modo a cose fatte, senza suscitare particolare interesse o dibattito.

È la terza legge di modifica della Costituzione approvata nel corso della XVIII legislatura, dopo le leggi costituzionali n. 1/2020 e n. 1/2021 che hanno rispettivamente ridotto il numero dei parlamentari e diminuito da 25 a 18 anni l’età per eleggere i componenti del Senato della Repubblica.

La ricca produzione di norme di revisione costituzionale di questo ultimo triennio renderà probabilmente la XVIII legislatura, in questo senso, una tra le più prolifiche insieme alla XIII legislatura (2001-2006). Fatte salve le leggi costituzionali di revisione degli statuti di diverse regioni ad autonomia speciale approvate negli anni 2013, 2016 e 2017, l’ultima modifica alla Carta costituzionale risaliva al 2012 con l’introduzione del principio del pareggio di bilancio in Costituzione (l. cost. n. 1/2012). Non si considerano ovviamente le revisioni costituzionali non confermate a seguito di referendum, quale la c.d. “riforma Renzi” del 2016.

Gli studiosi e gli operatori del diritto avranno modo di analizzare puntualmente la legge costituzionale 1/2022 e di ipotizzare le ricadute di una così significativa sottolineatura costituzionale dei valori ambientali, in particolare sugli orientamenti della giurisprudenza della Corte costituzionale. A una lettura superficiale il principio fondamentale della tutela ambientale verrebbe infatti a “rafforzare” la materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” annoverata tra quelle di competenza legislativa esclusiva statale dall’articolo 117, secondo comma, della Costituzione come modificato con la riforma del Titolo V introdotta dalla legge costituzionale n. 3/2001.

È comunque noto come la Corte abbia già escluso che possa identificarsi una materia in senso tecnico qualificabile come “tutela dell’ambiente” in quanto sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata. Secondo la Corte l’ambiente come ‘valore’ costituzionalmente protetto si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze, risultandone quindi una sorta di materia ‘trasversale’, che implica competenze diverse, regionali e statali allorché vi siano esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale [1]. Accanto alla tutela dell’ambiente, inteso nella sua accezione più estesa e sistemica, la novella costituzionale attribuisce alla Repubblica la tutela della biodiversità e degli ecosistemi.

In tale ambito, viene introdotto un riferimento all'”interesse delle future generazioni”, espressione mai utilizzata precedentemente nel testo costituzionale, che sembra imporre l’esigenza e quindi l’obbligo di preservare l’ambiente in una prospettiva che oltrepassa la presente generazione per traguardare un orizzonte temporale quasi indefinito. Il riferimento è comprensibile in questa “materia”, da chi considerasse irrimediabili e irrecuperabili gli eventuali pregiudizi recati oggi all’ambiente naturale. Si pensi, ad esempio, all’attuale dibattito sul cambiamento climatico, ritenuto ormai pressoché irreversibile. Tuttavia ci si può chiedere se il riferimento dinamico alle “future generazioni” non releghi, per contro, gli altri “principi fondamentali”, come si è accennato mai modificati o integrati in precedenza, a una dimensione quasi statica e quindi non aggiornata, inattuale, quasi che questi ultimi risultino ricoperti di un velo di polvere che ne rende impossibile una lettura evolutiva.

La novella costituzionale non ha mancato di introdurre una cenno alla tutela degli animali, riservata alla legge dello Stato che ne deve disciplinare i modi e le forme. È stato segnalato come la formulazione inserita nella l. cost. 1/22. abbia costituito un punto di mediazione tra la proposta di inserimento di una tutela degli animali quali “esseri senzienti” (riprendendo una dicitura presente nell’articolo 13 del Trattato di Lisbona dell’Unione europea) e, di contro, l’opzione “zero” sostenuta da chi ritenesse la tutela gli animali già inclusa pienamente nella nozione di ecosistema e biodiversità [2].

Così dunque anche il concetto di “benessere animale”, già peraltro trattato da strategie europee, da linee guida europee e nazionali e da leggi regionali vertenti sulla tutela degli animali d’affezione, sulla “pet therapy” e sulla sperimentazione animale, ha in qualche modo ingresso in Costituzione tra i principi fondamentali. Chi tra i padri costituenti l’avrebbe immaginato?

Tornando al quadro complessivo delle modifiche alla Carta, non è detto comunque che nell’ultimo anno di legislatura non possa arrivare al traguardo finale qualche ulteriore intervento “additivo/integrativo” della Costituzione se non degli stessi principi fondamentali almeno dei rapporti etico-sociali.

Pochi giorni fa, ad esempio, è stato licenziato dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato in sede referente il disegno di legge n. 747 che, modificando l’articolo 33 (o 32?), della Costituzione dovrebbe riconoscere un nuovo “diritto allo sport ed alla attività sportiva”, come  dichiarato da Valentina Vezzali, sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega allo sport. “È una riforma epocale che riconosce nello sport uno strumento fondamentale educativo, per il benessere e lo sviluppo culturale e sociale di milioni di persone in Italia“, ha concluso.

L’atto del Senato n. 747, frutto dell’abbinamento di varie iniziative di Camera e Senato dello stesso tenore, dovrebbe portare a una formulazione di questo genere: “La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dello sport in tutte le sue forme“. Al momento della redazione di questa nota il testo definitivo, comprensivo dell’emendamento 1.10 approvato in Commissione non pare disponibile sui siti delle Camere, al punto che sussiste incertezza sulla collocazione della disposizione nell’art. 32 o nel 33. Il consenso che pare maturare sul testo lascia aperta la via a un iter sufficientemente sollecito per la conclusione entro la legislatura.

Anche in questo caso si determina una “valorizzazione” costituzionale dello sport, questa volta nel titolo II della parte I della Costituzione, in bilico tra la collocazione nell’art. 32 al pari della tutela della salute, come parrebbe logico, dato il valore di promozione del benessere psicofisico dello sport, e nell’art. 33, alla stregua dell’arte e della scienza.

L’“ordinamento sportivo” figura notoriamente tra le materie di competenza concorrente fra lo Stato e le Regioni nel lungo elenco di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, spettando quindi allo Stato la definizione dei principi fondamentali della materia. Materia che in una accezione restrittiva potrebbe essere circoscritta agli aspetti appunto “ordinamentali” dello sport (quindi alla sua organizzazione, alla definizione per esempio della autonomia della giustizia sportiva); la costituzionalizzazione dello sport dovrebbe comportare invece la sua più incisiva promozione e capillare diffusione, per conseguire e attuare il diritto alla pratica sportiva in “tutte le sue forme”. Si può pensare che questa precisazione alluda, ad esempio, agli sport tradizionali praticati in forma dilettantistica, ricreativa, agli sport paralimpici, ma nelle intenzioni del legislatore forse anche alle discipline sportive che si riconoscono nelle federazioni associate al CONI (vi figurano ad esempio la federazione dei giochi e sport tradizionali, del twirling, della dama, della palla pugno etc.)

Alle iniziative di modifica costituzionale, cui si è fatto cenno, già operanti (in tema di ambiente) ed in itinere (in materia di sport) se ne aggiungono altre, come in ogni legislatura, con minori possibilità di successo. Recentemente nel mese di gennaio 2022 si è concluso l’esame in sede referente alla Camera della proposta di legge costituzionale, di iniziativa popolare, concernente il “riconoscimento delle peculiarità delle Isole e il superamento degli svantaggi derivanti dall’insularità“, senza modifiche rispetto al testo già approvato dal Senato in prima deliberazione (proposta di legge costituzionale A.C. 3353). La proposta è diretta a introdurre un comma aggiuntivo dopo il quinto comma dell’articolo 119 della Costituzione, ai sensi del quale la Repubblica riconosca le peculiarità delle Isole e promuova le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità.

Verrebbe da dire in sintesi la Carta “à la carte”. Il menù delle novelle costituzionali possibili è ricco e si presta a una ampia scelta di “principii”, “valori” o “materie” da esaltare mediante inserimento in Costituzione, cogliendo di volta in volta una sensibilità più o meno diffusa della quale si fa interprete il legislatore, anche solo per piantare la propria bandierina sulla pagina (e nel corpo) della Costituzione

Nascono però alcuni dubbi guardando alla questione dalla prospettiva dell’uomo della strada, dell’osservatore comune. Quanto sono consapevoli e convinti “del valore aggiunto” apportato dalla revisione costituzionale all’ambiente, alla tutela degli animali, allo sport o alle isole minori i parlamentari o gli esponenti del Governo che cavalcano con entusiasmo questa tendenza al ritocco episodico e non sistematico della carta costituzionale? Quanta coscienza hanno del fatto che il battito d’ali di una farfalla che si muove leggiadra tra principi fondamentali e rapporti civili ed etico-sociali può generare imprevedibili uragani nel restante corpo della Costituzione e, a ricaduta, nell’intero ordinamento?

E se sul menù, sulle ordinazioni “à la carte”, compariranno portate più elaborate, di digestione più faticosa? Pensiamo all’evoluzione, nel pensiero comune, del concetto di matrimonio e famiglia: come sarebbe mettere mano agli articoli 29, 30 e 31 che di famiglia, matrimonio e maternità trattano? E se una diversa concezione dell’appartenenza ai “generi” imponesse, ad esempio, una revisione dell’articolo 37?

Ma, tornando ai “principi fondamentali” o “supremi”, ci si può riconoscere oggi nell’articolo 11, con la sua nozione di guerra, con riferimento alla forma del conflitto tra Russia e Ucraina e alle sue conseguenze? Potrebbe essere messa in discussione quella formulazione senza violare il “sancta sanctorum” dei principi che si considerano sottratti alla revisione costituzionale (ammesso che sia unanimemente identificabile un nucleo di principi “intangibili” oltre alla forma repubblicana come statuito dall’articolo 139 della Costituzione)? In questi casi si determinerebbe probabilmente un livello più elevato della fisiologica tensione tra la tendenziale “rigidità” della Carta costituzionale e l’esigenza di un adattamento delle regole all’evoluzione e al progresso in campo sociale, scientifico ed economico che caratterizza da sempre tutti gli ordinamenti democratici. Non vi è da scandalizzarsi, ma da appellarsi con (maggiore) fiducia alla consapevolezza e cautela dei nostri rappresentanti in Parlamento nel metter mano alla Costituzione che è stata definita la “più bella del mondo”.


[1] Si veda, ex multis, la sentenza della Corte costituzionale n. 407/2002.

[2]  Cfr. Dossier del Servizio Studi del Senato n. 396 del mese di giugno 2021 “Tutela dell’ambiente in Costituzione”.

*Già Direttore della Direzione Generale Enti Locali, Montagna e Piccoli Comuni di Regione Lombardia, attualmente membro dell’Osservatorio sulle Autonomie e i Territori e docente presso il Master in Amministrazione Territoriale e Politiche di Sviluppo Locale dell’Università degli Studi di Pavia.

Istituire un’assemblea costituente? Una proposta illegittima e pericolosa

di Alessandro Morelli

“Una commissione ad hoc eletta dal popolo con 75 membri non parlamentari può dar vita a un sistema più efficiente e snello”. È questa la proposta avanzata dall’ex presidente del Senato Marcello Pera, illustrata in un’intervista a La Repubblica di qualche giorno fa. “Nelle riforme da fare per ottenere i fondi del piano Recovery – ha aggiunto Pera – si parla di velocizzare i processi, e certamente l’ottima ministra Cartabia farà del suo meglio. Eppure la Costituzione prevede che ‘contro le sentenze’, anche quelle su liti banali fra vicini di casa, è sempre ammesso il ricorso in Cassazione, dunque tre gradi di giudizio. Oppure, fra le stesse riforme, si parla di limitare l’appello del pubblico ministero, che però in nome della Costituzione la Corte costituzionale ha sentenziato impossibile”. Tale organo dovrebbe essere eletto dal popolo tra persone che non facessero già parte del Parlamento.

Una proposta subito accolta dalla capogruppo di Forza Italia al Senato Anna Maria Bernini, secondo la quale “Sarebbe miope far cadere nel vuoto la proposta del presidente Pera per far nascere una commissione dei 75 per riformare la Costituzione, sulla falsariga di quella presieduta da Ruini nel secondo dopoguerra”. Le riforme alle quali si fa riferimento non riguarderebbero soltanto il settore della giustizia ma l’intera organizzazione istituzionale (forma di governo, sistema delle autonomie ecc.).

La proposta di istituire una nuova assemblea costituente poggia sulla convinzione che le riforme organiche del testo costituzionale finora approvate dal Parlamento, che non hanno visto la luce (come quella promossa dal Governo Renzi, bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016), siano fallite per la mancanza di una sufficiente legittimazione politica delle maggioranze parlamentari che le avevano votate. Legittimazione di cui sarebbe, invece, dotato un organo collegiale eletto a suffragio universale e diretto, specificamente incaricato di approvare una nuova costituzione, similmente all’Assemblea che diede vita all’attuale Carta repubblicana.

Il ragionamento, tuttavia, non convince e la soluzione prospettata appare altamente rischiosa e sostanzialmente illegittima.

Non si comprende innanzitutto perché tale assemblea dovrebbe essere composta solo da 75 membri. L’Assemblea costituente eletta il 2 giugno 1946, infatti, annoverava 556 componenti e la Commissione presieduta da Meuccio Ruini, evocata dal numero dell’organo prospettato da Pera, fu istituita il 15 luglio 1946 tra tutti i Costituenti, con il compito di redigere il testo da sottoporre, alla fine dei lavori, alla stessa Assemblea. Non è chiaro, inoltre, perché di tale organo non potrebbero far parte gli attuali parlamentari, che verrebbero dunque privati dell’elettorato passivo.

Un organo del genere dovrebbe essere istituito, in ogni caso, con un’apposita legge costituzionale approvata secondo la procedura aggravata prevista dall’art. 138 Cost. (due deliberazioni da parte di ciascuna camera a intervallo non minore di tre mesi, approvazione con maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera nella seconda votazione, possibilità di chiedere l’indizione di un referendum, tranne nell’ipotesi in cui la legge sia stata approvata nella seconda votazione dai due terzi di ciascuna camera). La legge dovrebbe anche definire poteri e limiti dell’assemblea costituente e i suoi rapporti con il Parlamento. Ma qui sta il problema principale: cosa potrebbe fare tale assemblea che non possa già fare il Parlamento?

La Corte costituzionale ha chiarito da tempo che la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro “contenuto essenziale” neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali (lo ha detto soprattutto nella sentenza n. 1146 del 1988 ma anche in diverse altre pronunce). Oltre alla forma repubblicana, di cui parla espressamente l’articolo 139 della Costituzione, rientrano tra questi principi quelli enunciati dai primi dodici articoli della Carta repubblicana nonché dagli articoli della prima parte che riconoscono diritti e doveri fondamentali.

A cosa servirebbe, dunque, una nuova assemblea costituente se non a sovvertire o a modificare nel loro “contenuto essenziale” i principi supremi dell’ordinamento?

Delle due l’una. Se l’organo che si pensa di istituire non è una vera “assemblea costituente”, ma solo una commissione, pur a designazione elettiva, incaricata di predisporre un testo di revisione costituzionale che non tocchi nel loro “contenuto essenziale” i principi supremi, non si comprende il motivo della sua creazione e la stessa denominazione appare impropria. Tutte le revisioni indicate dal promotore dell’iniziativa, riguardanti i settori della giustizia, della forma di governo e delle autonomie, possono già essere approvate con la procedura prevista dalla Costituzione, senza certo il bisogno di creare un organo ad hoc. Se, invece, si vuole effettivamente dare vita a un’assemblea costituente, totalmente libera di approvare una nuova Costituzione (principi supremi compresi), si sta prospettando una soluzione palesemente incostituzionale, anzi eversiva.

C’è però dell’altro. Un’assemblea costituente non è una soluzione adottabile in qualsiasi frangente storico, non può essere usata per superare un momento di stasi politica o una qualunque crisi, pur grave, della dinamica istituzionale. È l’organo titolare del potere costituente, legittimato a dare vita a un nuovo ordinamento.  Le particolari condizioni storiche in cui operò l’Assemblea che il 22 dicembre 1947 approvò in via definitiva la Costituzione vigente non sono certo paragonabili all’attuale contesto politico-istituzionale. Si era nell’immediato dopoguerra, in una situazione di grande incertezza anche dal punto di vista politico. I nostri costituenti, come ha scritto Roberto Bin, lavorarono dietro a quello che John Rawls ha chiamato il “velo d’ignoranza”: redassero il testo della nostra legge fondamentale con il peso dell’“umana ignoranza del futuro, aggravata dall’assenza di un passato recente e significativo, capace di consentire previsioni sulle sorti politiche delle parti poste a confronto”. Il che – continua ancora Bin – fece prevalere un atteggiamento di prudenza “dettato dal timore di soccombere politicamente e di veder travolte le proprie posizioni politiche, i valori di cui ci si è eretti difensori”. Oggi tali condizioni non esistono.

Che il Governo Draghi sia sostenuto da una maggioranza parlamentare estremamente ampia non è una circostanza sufficiente a legittimare l’istituzione di un’assemblea costituente. L’esperienza degli ultimi decenni mostra come le decisioni sulle riforme siano prese da ogni maggioranza parlamentare con le idee abbastanza chiare su come avvantaggiarsi delle stesse (il succedersi di leggi elettorali illegittime e difettose è, in tal senso, emblematico).

Che tipo di costituzione potrebbe scaturire allora da una nuova assemblea costituente? Con tutta probabilità, si tratterebbe di una costituzione inidonea ad assolvere la duplice funzione che è propria di tale atto: assicurare la separazione dei poteri e la garanzia dei diritti fondamentali. Principi, questi ultimi, la cui garanzia richiederebbe oggi più che mai, dopo la riduzione del numero dei parlamentari, interventi riformatori volti a rafforzare il sistema dei contrappesi e delle garanzie costituzionali. E per fare questo gli strumenti forniti dalla Costituzione vigente sono più che sufficienti. Serve soltanto la volontà politica.

Pubblicato il 2 giugno su lacostituzione.info.

Come riformare, cosa riformare

di Alessandro Morelli

Il fascino ben poco discreto delle riforme non accenna a diminuire. Continua a trovare ampio seguito l’idea che il mutamento delle regole giuridiche possa magicamente produrre quella palingenesi politica attesa da tempo. Un rinnovamento che, in verità, richiederebbe, più che sofisticate soluzioni istituzionali, un cambiamento radicale nel modo stesso di fare politica.

Non che le riforme non servano. L’assetto istituzionale esigerebbe anzi diversi interventi di ordinaria (e qualcuno anche di straordinaria) amministrazione. Il discorso sulle riforme andrebbe però sfrondato dalle connotazioni simboliche che lo rendono politicamente così attraente, ma che ne ostacolano, al tempo stesso, uno sviluppo razionale.

Nella campagna referendaria sul taglio dei parlamentari, la narrazione antipolitica e populista ha finito con l’incrociarsi con quella palingenetica. E nell’ambito di quest’ultima, alla revisione in gioco si è attribuita la capacità d’inaugurare una nuova stagione di riforme istituzionali.

La proposta presentata a inizio ottobre dal PD sembra voler dare consistenza alle promesse fatte nelle settimane che hanno preceduto il voto referendario. Ma qual è la logica che tiene i diversi interventi prospettati nel disegno di riforma?

Nella Relazione di accompagnamento al progetto, si afferma che l’intento principale sarebbe quello d’introdurre un “modello di parlamentarismo razionalizzato”, allo scopo di “rafforzare, coerentemente con i principi iscritti nella Costituzione del 1948, i meccanismi di funzionamento del rapporto di fiducia tra l’esecutivo e le Camere, garantendo una più sicura stabilità al Governo e restituendo al Parlamento il suo ruolo centrale nella definizione dell’indirizzo politico nazionale”. Subito dopo si aggiunge un’altra finalità: quella di realizzare “una puntuale e circoscritta differenziazione tra Camera e Senato in ordine alla composizione, alle funzioni e alle modalità di svolgimento dei lavori delle due assemblee, al fine di migliorare la qualità del procedimento legislativo e meglio rappresentare gli interessi territoriali con riferimento alle decisioni che più incidono sulle competenze delle regioni”. Un terzo obiettivo dichiarato è, infine, quello di “dare coerenza all’insieme delle innovazioni costituzionali iniziate con la riduzione del numero dei parlamentari e in corso di prosecuzione coi cosiddetti correttivi costituzionali già all’esame delle Camere”. Tra questi, l’abbassamento a diciotto anni dell’età degli elettori del Senato, il superamento del criterio della base regionale per l’elezione del Senato, la riduzione dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica in modo da mantenere il rapporto numerico originario con i parlamentari.

Non si può non essere d’accordo con almeno alcuni degli interventi prospettati, considerate la quantità e la varietà delle revisioni incluse nel progetto. Tuttavia, il problema sta proprio nella carenza di una “matrice razionalmente unitaria”, per usare una formula spesso impiegata dalla Corte costituzionale nei suoi giudizi sui referendum abrogativi.

Ci sarà tempo e modo di dedicare più approfondite analisi a ciascuna delle specifiche proposte avanzate. A una prima lettura, però, ciò che colpisce è l’assenza di un disegno chiaro sull’organizzazione e sul funzionamento delle Camere. Interventi diretti a introdurre un monocameralismo di fatto (quelli intesi a valorizzare il Parlamento in seduta comune) si affiancano ad altri volti a differenziare le Assemblee legislative, sul piano della composizione e delle competenze, e ad altri ancora funzionali a rendere le Camere più simili tra loro, accentuando il bicameralismo perfetto (i “correttivi costituzionali” ai quali rinvia la Relazione di accompagnamento).

Nel progetto ci sono almeno tre idee diverse del bicameralismo e sarebbe bene che si chiarisse, prima di tutto, verso quale di queste si vuole andare.

Se, poi, si guarda a tutte le altre proposte di revisione costituzionale, avanzate dalle forze politiche di maggioranza e di opposizione, il quadro complessivo delle riforme in cantiere appare estremamente confuso e in parte contraddittorio. Si va dal progetto di modifica degli articoli 71 e 75 della Costituzione (al momento in discussione presso la Commissione Affari costituzionali del Senato), volto a introdurre il referendum propositivo e a intervenire sul referendum abrogativo, con riguardo al quorum richiesto per la sua approvazione, a una proposta di legge, di iniziativa parlamentare, che abroga il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL), a una che prevede ancora la costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze e l’introduzione di una clausola di supremazia statale. A queste si aggiungono altre proposte volte a introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e a ridefinirne il ruolo, attribuendogli la direzione e la responsabilità della politica generale del Governo; a inserire in Costituzione la previsione di un quorum qualificato (pari alla maggioranza assoluta o a quella dei due terzi) per l’approvazione delle leggi elettorali della Camera e del Senato; a introdurre la tutela dell’ambiente tra i principi fondamentali della Costituzione.

L’avvio di un processo riformatore dagli esiti tanti incerti riporta con urgenza a un tema che non riesce a trovare spazio adeguato nel dibattito pubblico: quello della necessità di ripensare, prima di ogni altra cosa, lo stesso procedimento di revisione costituzionale. Da troppo tempo – da quando la maggioranza degli italiani sembrerebbe essersi convertita al “maggioritarismo” –, la procedura prevista dall’articolo 138 della Costituzione appare insufficiente a garantire il principio di rigidità della Legge fondamentale. Un principio, quest’ultimo, che non si pone in contrasto con il principio democratico, ma che anzi lo tutela e lo rafforza.

Certo, se si ritiene che la democrazia sia solo il governo della maggioranza, la rigidità costituzionale è semplicemente un intralcio (meno rigida sarà la Costituzione, più facile sarà per la maggioranza stessa adattarla alle proprie esigenze). Se però si ha un’idea diversa del principio democratico (più in linea con i dettami della Costituzione vigente) e si reputa che quest’ultimo prescriva un sistema nel quale la maggioranza legifera e governa nel rispetto delle minoranze e dei loro diritti, allora la rigidità acquista ben altro significato. In questa diversa prospettiva, infatti, l’aggravamento della procedura di revisione costituzionale consente una più ampia partecipazione al processo di modifica della Legge fondamentale dello Stato, quella che riconosce e garantisce le regole basilari del gioco politico e i diritti inviolabili della persona umana.

Occorrerebbe, innanzitutto, mettere in sicurezza l’attuale procedura di revisione costituzionale che, come le ultime esperienze hanno dimostrato, risulta più adatta a revisioni puntuali anziché a interventi di riforma ampia e organica della Costituzione. Con la riduzione del numero dei parlamentari, la maggioranza assoluta, prevista per l’approvazione delle modifiche costituzionali, non è più sufficiente: si dovrebbe prevedere come obbligatoria – almeno nelle ultime due delle quattro deliberazioni previste – la maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera. Il referendum, inoltre, dovrebbe essere consentito in tutti i casi e trasformato in un passaggio necessario del procedimento (come in altri paesi come l’Irlanda, la Danimarca, la Francia e l’Austria, dove è tale per le revisioni totali).

Ancora sull’esempio di altre esperienze straniere, si potrebbe, poi, pensare d’introdurre una seconda procedura alternativa, più rinforzata, per le riforme organiche, nel rispetto dei limiti assoluti alla stessa revisione (la forma repubblicana, i principi fondamentali e i diritti inviolabili): un iter che, ad esempio, potrebbe prevedere, subito dopo l’iniziativa, lo scioglimento delle Camere, l’indizione di nuove elezioni e l’attribuzione del compito di approvare la riforma alle nuove Camere.

Proseguendo lungo la via di un sano “riformismo benaltrista” (più che legittimo quando a essere discutibili sono le stesse finalità del processo di riforma promosso dalla maggioranza), si potrebbe pensare di correggere il tiro degli interventi, mirando non più soltanto al piano istituzionale ma anche a quello politico. E così potrebbe finalmente darsi attuazione all’articolo 49 della Costituzione sui partiti, con una legge che promuovesse in modo efficace l’adozione, da parte degli stessi, di un’organizzazione interna democratica. Un progetto ancora più ambizioso potrebbe essere quello di modificare la stessa disposizione costituzionale, adottando come modelli la Legge fondamentale tedesca, la Costituzione spagnola o quella portoghese, che prevedono espressamente che l’ordinamento interno dei partiti rispetti i principi della democrazia. Occorre valorizzare e potenziare adeguatamente i diritti di partecipazione politica dei cittadini, restituendo ai partiti il ruolo, assegnatogli dalla Costituzione, di formazioni intermedie necessarie al corretto funzionamento della democrazia rappresentativa. E, per far ciò, è necessario assicurarne la democraticità interna.

Se le forze politiche hanno sostenuto a larghissima maggioranza la riduzione del numero dei propri parlamentari, c’è forse speranza che la pressione di un’opinione pubblica consapevole e motivata possa indurli anche ad accettare regole che impongano loro di adottare un’organizzazione interna democratica.

Qualche riforma istituzionale, peraltro, potrebbe riguardare direttamente anche la grave situazione di emergenza determinata dalla diffusione del Covid-19, che ormai da parecchi mesi stiamo affrontando. Una condizione che, come mi è capitato di dire altrove, non dovrebbe ispirare l’adozione di riforme strutturali dell’ordinamento, poiché ciò che può andare bene in una situazione emergenziale risulta per lo più intollerabile in condizioni di normalità. A fronte dei continui conflitti tra Stato, Regioni ed enti locali – che pure dipendono da fattori politici sui quali il diritto non può fare molto – appare evidente, tuttavia, l’insufficienza della normativa in materia (quella relativa alla Protezione civile e quella sul Servizio sanitario nazionale), così come carente, sotto diversi profili, è anche l’impianto normativo definito negli ultimi mesi dall’Esecutivo per gestire l’emergenza che stiamo vivendo, un impianto che fa leva, com’è noto, sullo strumento del dpcm.

Una riforma di rango legislativo (non costituzionale, per i motivi che dicevo sopra) dovrebbe allora essere promossa anche in questo campo, per esempio, com’è stato proposto da un’autorevole dottrina, introducendo una legge-quadro in materia sanitaria idonea a definire, in modo chiaro, le competenze dei diversi livelli istituzionali nelle situazioni di emergenza.

La contrapposizione tra riformisti e conservatori è stata descritta spesso in modo caricaturale nel dibattito pubblico: i primi votati al cambiamento di un sistema istituzionale presentato come il peggiore dei mondi possibili; i secondi come grotteschi difensori di una costituzione mummificata, idolatrata come la “più bella del mondo”. Le cose non stanno così. È necessario capire, in un caso e nell’altro, cosa si voglia cambiare, come si intenda farlo e se c’è qualcosa che si desidera conservare. E, soprattutto, occorre provare a estendere il dibattito pubblico a temi centrali, che continuano a rimanerne fuori ma dalla cui trattazione non può prescindersi se si vogliono creare le condizioni per uno sviluppo sano delle istituzioni democratiche.