Come riformare, cosa riformare

di Alessandro Morelli

Il fascino ben poco discreto delle riforme non accenna a diminuire. Continua a trovare ampio seguito l’idea che il mutamento delle regole giuridiche possa magicamente produrre quella palingenesi politica attesa da tempo. Un rinnovamento che, in verità, richiederebbe, più che sofisticate soluzioni istituzionali, un cambiamento radicale nel modo stesso di fare politica.

Non che le riforme non servano. L’assetto istituzionale esigerebbe anzi diversi interventi di ordinaria (e qualcuno anche di straordinaria) amministrazione. Il discorso sulle riforme andrebbe però sfrondato dalle connotazioni simboliche che lo rendono politicamente così attraente, ma che ne ostacolano, al tempo stesso, uno sviluppo razionale.

Nella campagna referendaria sul taglio dei parlamentari, la narrazione antipolitica e populista ha finito con l’incrociarsi con quella palingenetica. E nell’ambito di quest’ultima, alla revisione in gioco si è attribuita la capacità d’inaugurare una nuova stagione di riforme istituzionali.

La proposta presentata a inizio ottobre dal PD sembra voler dare consistenza alle promesse fatte nelle settimane che hanno preceduto il voto referendario. Ma qual è la logica che tiene i diversi interventi prospettati nel disegno di riforma?

Nella Relazione di accompagnamento al progetto, si afferma che l’intento principale sarebbe quello d’introdurre un “modello di parlamentarismo razionalizzato”, allo scopo di “rafforzare, coerentemente con i principi iscritti nella Costituzione del 1948, i meccanismi di funzionamento del rapporto di fiducia tra l’esecutivo e le Camere, garantendo una più sicura stabilità al Governo e restituendo al Parlamento il suo ruolo centrale nella definizione dell’indirizzo politico nazionale”. Subito dopo si aggiunge un’altra finalità: quella di realizzare “una puntuale e circoscritta differenziazione tra Camera e Senato in ordine alla composizione, alle funzioni e alle modalità di svolgimento dei lavori delle due assemblee, al fine di migliorare la qualità del procedimento legislativo e meglio rappresentare gli interessi territoriali con riferimento alle decisioni che più incidono sulle competenze delle regioni”. Un terzo obiettivo dichiarato è, infine, quello di “dare coerenza all’insieme delle innovazioni costituzionali iniziate con la riduzione del numero dei parlamentari e in corso di prosecuzione coi cosiddetti correttivi costituzionali già all’esame delle Camere”. Tra questi, l’abbassamento a diciotto anni dell’età degli elettori del Senato, il superamento del criterio della base regionale per l’elezione del Senato, la riduzione dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica in modo da mantenere il rapporto numerico originario con i parlamentari.

Non si può non essere d’accordo con almeno alcuni degli interventi prospettati, considerate la quantità e la varietà delle revisioni incluse nel progetto. Tuttavia, il problema sta proprio nella carenza di una “matrice razionalmente unitaria”, per usare una formula spesso impiegata dalla Corte costituzionale nei suoi giudizi sui referendum abrogativi.

Ci sarà tempo e modo di dedicare più approfondite analisi a ciascuna delle specifiche proposte avanzate. A una prima lettura, però, ciò che colpisce è l’assenza di un disegno chiaro sull’organizzazione e sul funzionamento delle Camere. Interventi diretti a introdurre un monocameralismo di fatto (quelli intesi a valorizzare il Parlamento in seduta comune) si affiancano ad altri volti a differenziare le Assemblee legislative, sul piano della composizione e delle competenze, e ad altri ancora funzionali a rendere le Camere più simili tra loro, accentuando il bicameralismo perfetto (i “correttivi costituzionali” ai quali rinvia la Relazione di accompagnamento).

Nel progetto ci sono almeno tre idee diverse del bicameralismo e sarebbe bene che si chiarisse, prima di tutto, verso quale di queste si vuole andare.

Se, poi, si guarda a tutte le altre proposte di revisione costituzionale, avanzate dalle forze politiche di maggioranza e di opposizione, il quadro complessivo delle riforme in cantiere appare estremamente confuso e in parte contraddittorio. Si va dal progetto di modifica degli articoli 71 e 75 della Costituzione (al momento in discussione presso la Commissione Affari costituzionali del Senato), volto a introdurre il referendum propositivo e a intervenire sul referendum abrogativo, con riguardo al quorum richiesto per la sua approvazione, a una proposta di legge, di iniziativa parlamentare, che abroga il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL), a una che prevede ancora la costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze e l’introduzione di una clausola di supremazia statale. A queste si aggiungono altre proposte volte a introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e a ridefinirne il ruolo, attribuendogli la direzione e la responsabilità della politica generale del Governo; a inserire in Costituzione la previsione di un quorum qualificato (pari alla maggioranza assoluta o a quella dei due terzi) per l’approvazione delle leggi elettorali della Camera e del Senato; a introdurre la tutela dell’ambiente tra i principi fondamentali della Costituzione.

L’avvio di un processo riformatore dagli esiti tanti incerti riporta con urgenza a un tema che non riesce a trovare spazio adeguato nel dibattito pubblico: quello della necessità di ripensare, prima di ogni altra cosa, lo stesso procedimento di revisione costituzionale. Da troppo tempo – da quando la maggioranza degli italiani sembrerebbe essersi convertita al “maggioritarismo” –, la procedura prevista dall’articolo 138 della Costituzione appare insufficiente a garantire il principio di rigidità della Legge fondamentale. Un principio, quest’ultimo, che non si pone in contrasto con il principio democratico, ma che anzi lo tutela e lo rafforza.

Certo, se si ritiene che la democrazia sia solo il governo della maggioranza, la rigidità costituzionale è semplicemente un intralcio (meno rigida sarà la Costituzione, più facile sarà per la maggioranza stessa adattarla alle proprie esigenze). Se però si ha un’idea diversa del principio democratico (più in linea con i dettami della Costituzione vigente) e si reputa che quest’ultimo prescriva un sistema nel quale la maggioranza legifera e governa nel rispetto delle minoranze e dei loro diritti, allora la rigidità acquista ben altro significato. In questa diversa prospettiva, infatti, l’aggravamento della procedura di revisione costituzionale consente una più ampia partecipazione al processo di modifica della Legge fondamentale dello Stato, quella che riconosce e garantisce le regole basilari del gioco politico e i diritti inviolabili della persona umana.

Occorrerebbe, innanzitutto, mettere in sicurezza l’attuale procedura di revisione costituzionale che, come le ultime esperienze hanno dimostrato, risulta più adatta a revisioni puntuali anziché a interventi di riforma ampia e organica della Costituzione. Con la riduzione del numero dei parlamentari, la maggioranza assoluta, prevista per l’approvazione delle modifiche costituzionali, non è più sufficiente: si dovrebbe prevedere come obbligatoria – almeno nelle ultime due delle quattro deliberazioni previste – la maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera. Il referendum, inoltre, dovrebbe essere consentito in tutti i casi e trasformato in un passaggio necessario del procedimento (come in altri paesi come l’Irlanda, la Danimarca, la Francia e l’Austria, dove è tale per le revisioni totali).

Ancora sull’esempio di altre esperienze straniere, si potrebbe, poi, pensare d’introdurre una seconda procedura alternativa, più rinforzata, per le riforme organiche, nel rispetto dei limiti assoluti alla stessa revisione (la forma repubblicana, i principi fondamentali e i diritti inviolabili): un iter che, ad esempio, potrebbe prevedere, subito dopo l’iniziativa, lo scioglimento delle Camere, l’indizione di nuove elezioni e l’attribuzione del compito di approvare la riforma alle nuove Camere.

Proseguendo lungo la via di un sano “riformismo benaltrista” (più che legittimo quando a essere discutibili sono le stesse finalità del processo di riforma promosso dalla maggioranza), si potrebbe pensare di correggere il tiro degli interventi, mirando non più soltanto al piano istituzionale ma anche a quello politico. E così potrebbe finalmente darsi attuazione all’articolo 49 della Costituzione sui partiti, con una legge che promuovesse in modo efficace l’adozione, da parte degli stessi, di un’organizzazione interna democratica. Un progetto ancora più ambizioso potrebbe essere quello di modificare la stessa disposizione costituzionale, adottando come modelli la Legge fondamentale tedesca, la Costituzione spagnola o quella portoghese, che prevedono espressamente che l’ordinamento interno dei partiti rispetti i principi della democrazia. Occorre valorizzare e potenziare adeguatamente i diritti di partecipazione politica dei cittadini, restituendo ai partiti il ruolo, assegnatogli dalla Costituzione, di formazioni intermedie necessarie al corretto funzionamento della democrazia rappresentativa. E, per far ciò, è necessario assicurarne la democraticità interna.

Se le forze politiche hanno sostenuto a larghissima maggioranza la riduzione del numero dei propri parlamentari, c’è forse speranza che la pressione di un’opinione pubblica consapevole e motivata possa indurli anche ad accettare regole che impongano loro di adottare un’organizzazione interna democratica.

Qualche riforma istituzionale, peraltro, potrebbe riguardare direttamente anche la grave situazione di emergenza determinata dalla diffusione del Covid-19, che ormai da parecchi mesi stiamo affrontando. Una condizione che, come mi è capitato di dire altrove, non dovrebbe ispirare l’adozione di riforme strutturali dell’ordinamento, poiché ciò che può andare bene in una situazione emergenziale risulta per lo più intollerabile in condizioni di normalità. A fronte dei continui conflitti tra Stato, Regioni ed enti locali – che pure dipendono da fattori politici sui quali il diritto non può fare molto – appare evidente, tuttavia, l’insufficienza della normativa in materia (quella relativa alla Protezione civile e quella sul Servizio sanitario nazionale), così come carente, sotto diversi profili, è anche l’impianto normativo definito negli ultimi mesi dall’Esecutivo per gestire l’emergenza che stiamo vivendo, un impianto che fa leva, com’è noto, sullo strumento del dpcm.

Una riforma di rango legislativo (non costituzionale, per i motivi che dicevo sopra) dovrebbe allora essere promossa anche in questo campo, per esempio, com’è stato proposto da un’autorevole dottrina, introducendo una legge-quadro in materia sanitaria idonea a definire, in modo chiaro, le competenze dei diversi livelli istituzionali nelle situazioni di emergenza.

La contrapposizione tra riformisti e conservatori è stata descritta spesso in modo caricaturale nel dibattito pubblico: i primi votati al cambiamento di un sistema istituzionale presentato come il peggiore dei mondi possibili; i secondi come grotteschi difensori di una costituzione mummificata, idolatrata come la “più bella del mondo”. Le cose non stanno così. È necessario capire, in un caso e nell’altro, cosa si voglia cambiare, come si intenda farlo e se c’è qualcosa che si desidera conservare. E, soprattutto, occorre provare a estendere il dibattito pubblico a temi centrali, che continuano a rimanerne fuori ma dalla cui trattazione non può prescindersi se si vogliono creare le condizioni per uno sviluppo sano delle istituzioni democratiche.

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