Ultima chiamata per regolare i partiti

di Gabriele Maestri

Nei confronti e negli scontri tra le forze politiche, prima e dopo il referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari, ha avuto molto rilievo il dibattito sulla legge elettorale. Ciò non stupisce: se la Costituzione è il complesso di “regole del gioco” dell’intero ordinamento democratico, la legge elettorale è il gruppo di norme che, a scadenze definite (se tutto va bene), regolando tutto ciò che riguarda e precede la trasformazione di voti in seggi, determina la composizione del Parlamento e influisce profondamente sul suo funzionamento e sui rapporti tra Camere e Governo. Sorprende invece che tra quelle stesse forze politiche non abbia avuto quasi alcuno spazio un’altra questione, legata alla natura e al ruolo dei partiti.

Eppure si tratta di un punto fondamentale, che riguarda l’intera vita concreta dell’ordinamento (non solo nei momenti elettorali) e l’azione dei soggetti chiamati a «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»: così stabilisce l’articolo 49 della Costituzione italiana, mai modificato. Studiose e studiosi conoscono la genesi travagliata di questa disposizione così importante: il testo fu frutto del compromesso tra chi, in Assemblea costituente, credeva che i partiti dovessero applicare il principio democratico anche alla loro organizzazione e ai loro processi di decisione e chi, invece, temeva che permettere allo Stato di sindacare la “democrazia interna” dei partiti limitasse la libertà dei partiti, mettendo a rischio la sopravvivenza di alcuni di essi. Prevalse la seconda tesi, lasciando nel testo finale uno spiraglio per la prima: l’espressione «metodo democratico» era applicabile in astratto al confronto tra partiti come all’azione interna a ogni forza politica.

Quel travaglio nella scrittura dell’articolo ha influito enormemente sulla sua applicazione: per decenni i partiti non hanno fatto nulla perché lo Stato si occupasse della loro natura e del loro funzionamento. Solo l’emergere di alcuni scandali portò nel 1974 ad aprire il capitolo del finanziamento pubblico alle forze politiche (destinato nel corso del tempo a mutare forme e spesso ad aumentare di volume, al di là del taglio per via referendaria del 1993 e fino alla sua progressiva riduzione negli “anni Dieci”), ma non si ebbe la stessa attenzione per ciò che accadeva all’interno dei partiti: non si volle considerare che, come aveva detto a chiare lettere Aldo Moro alla Costituente il 22 maggio 1947, «se non vi è una base di democrazia interna, i partiti non potrebbero trasfondere indirizzo democratico nell’ambito della vita politica del Paese».

Persa l’occasione della crisi successiva a «Tangentopoli», si sono dovuti aspettare altri vent’anni per capire che occorreva qualche regola su cosa fosse un partito e come dovesse agire. All’origine ci furono nuovi scandali patrimoniali, stavolta legati all’uso illecito dei “rimborsi elettorali” (magari avvenuto dopo che i partiti avevano smesso di operare ma esistevano ancora, mentre i più li credevano scomparsi); fu però determinante l’ingresso consistente in Parlamento di un soggetto che rifiutava le forme del partito e dell’associazione (dandosi un «non statuto»), secondo una visione antipolitica che ne ha alimentato il consenso a lungo. La necessità di confrontarsi con la novità (anche organizzativa) del MoVimento 5 Stelle ha portato i partiti a rivalutare l’importanza di una forma – quella del partito solido e definito, con vari organi e uno statuto a codificare strutture e procedure – che loro stessi avevano in parte abbandonato, specie con la progressiva personalizzazione della politica, mentre cresceva sempre di più la distanza tra vertici e base.

Con il decreto-legge n. 149/2013, convertito con la legge n. 13/2014, si è rivoluzionato il sistema di sostegno pubblico ai partiti (eliminando via via i “rimborsi” e prevedendo al loro posto la contribuzione indiretta con il 2 per mille dell’Irpef e i contributi volontari fiscalmente agevolati); soprattutto però si è chiarito che le risorse pubbliche – specie in un clima di disagio sociale che esige l’«austerità del sistema politico» – spettano solo ai «partiti politici che rispettano i requisiti di trasparenza e democraticità» previsti da quella stessa fonte. Si è dunque colta l’occasione della crisi per stringere i cordoni della borsa e limitarne l’accesso a chi avesse garantito l’osservanza del «metodo democratico», senza dichiarare espressamente che la “democrazia interna” ai partiti era in realtà un ingrediente fondamentale per la qualità dell’intero sistema democratico.

La richiesta di “democrazia interna” si è peraltro esaurita soprattutto, per i partiti interessati a godere delle provvidenze pubbliche, nell’onere di dotarsi di uno statuto nella forma dell’atto pubblico, con un contenuto minimo indicato dal decreto (come gli organi, le procedure decisionali, i diritti e i doveri degli iscritti, i metodi per scegliere le candidature, i rapporti con le articolazioni territoriali e le sanzioni nei confronti degli iscritti con relative procedure di ricorso). Lo statuto è verificato dalla Commissione incaricata di controllare i rendiconti dei partiti; l’organo si limita a rilevare se il documento contiene ciò che la legge richiede e, se è così, iscrive il partito in un registro consultabile online. Non è previsto – almeno in teoria – un sindacato nel merito delle scelte compiute, legato a un livello minimo di diritti o di partecipazione dei soci da esigere, né spetta alla Commissione valutare se la condotta concreta del partito rispetta le regole del suo statuto.

La “democrazia interna” perseguita dal legislatore sembra risolversi nella “democrazia come trasparenza”, di regole e soprattutto di risorse: una lettura indotta dalla reazione alla crisi del sistema partitico tradizionale e alla domanda di pubblicità nei processi decisionali. L’impostazione del decreto-legge del 2013 conferma quest’impressione: la maggior parte delle norme, infatti, è dettata in materia di compilazione, certificazione, presentazione e controllo dei rendiconti, nonché sulle sanzioni da applicare in caso di inosservanza delle regole. Lo stesso spirito ha contrassegnato la più recente legge n. 3/2019 (c.d. “spazzacorrotti”): essa è intervenuta sulla disciplina in materia di partiti per rendere più stringenti le prescrizioni di trasparenza contabile, soprattutto estendendo l’obbligo di presentare i rendiconti anche a fondazioni, associazioni e comitati che sono considerati legati ai partiti per la composizione dei loro organi direttivi o per i contributi versati da questi soggetti (non di rado aggravando non poco gli obblighi di questi soggetti e la mole di lavoro della Commissione). Nemmeno un rigo era dedicato alla “democrazia interna” strettamente intesa.

Ci si può accontentare delle norme già introdotte negli ultimi anni, ritenendo che siano “meglio che niente”, rispetto al totale silenzio riscontrato in tema di partiti prima del 2012? A parere di chi scrive, no. Qualcosa di certo si è fatto, ma non sembra ancora sufficiente a rendere operante in pieno il dettato costituzionale.

Rileva innanzitutto la natura dei partiti, legata al ruolo che l’articolo 49 della Costituzione assegna loro. Lì si legge che i partiti sono associazioni, ma il compito di «concorrere […] a determinare la politica nazionale» richiederebbe che quei soggetti avessero un “regime” diverso rispetto alle tante associazioni che incontriamo quotidianamente. Ancora oggi, invece, i partiti sono inquadrati come «associazioni non riconosciute», al pari di un circolo ricreativo o di una bocciofila. Le norme sulla trasparenza finanziaria non c’entrano con la natura e l’organizzazione del partito. Ci sono le regole sulla forma e sul contenuto degli statuti, ma per i partiti inadempienti si prevede solo l’esclusione dai benefici economici: una forza non interessata alle provvidenze pubbliche, dunque, può continuare a operare senza adeguare il suo statuto alle previsioni di legge e può perfino partecipare alle elezioni. Dal 2017, infatti, la legge richiede solo di dichiarare alcuni «elementi minimi di trasparenza» (il legale rappresentante del partito o gruppo politico, il soggetto titolare del contrassegno, la sede legale, nonché gli organi della forza politica, la loro composizione e le loro attribuzioni), senza che si possa sindacare in alcun modo l’effettivo grado di “democraticità” emergente da quelle informazioni.

Non stupisce che a gennaio del 2015, Ugo Sposetti, ultimo tesoriere dei Democratici di sinistra (tuttora in carica…), abbia detto nell’aula di Palazzo Madama: «Non sappiamo che cos’è un partito; non sappiamo come si svolge la vita interna di un partito; non sappiamo come vive un partito». Sarebbe allora opportuno chiedere per legge a tutti i partiti esistenti e futuri, come condizione necessaria anche per concorrere alle elezioni, di seguire procedure codificate per fondare e regolare dall’interno un soggetto politico (con atto costitutivo e statuto nella forma dell’atto pubblico) e regolare meglio alcuni profili di democrazia interna, di cui si dirà; in cambio, i partiti potrebbero diventare associazioni riconosciute con personalità giuridica, forma adatta alle funzioni pubblicistiche riconosciute ai partiti. Un simile intervento legislativo sarebbe più giustificato – anzi, doveroso – se prima si modificasse l’articolo 49 della Costituzione guardando a Paesi come la Germania, la Spagna o il Portogallo, che riferiscono espressamente il principio democratico pure all’ordinamento interno ai partiti: già nel 1985 la “commissione Bozzi” suggerì, tra l’altro, di intervenire sull’articolo 49, precisando che i partiti avrebbero concorso a determinare la politica nazionale «con strutture e metodo democratici».

Quella proposta di riforma costituzionale, peraltro, invitava anche a introdurre una riserva di legge in materia di finanziamento ai partiti e di garanzia della «partecipazione degli iscritti a tutte le fasi di formazione della volontà politica dei partiti, compresa la designazione dei candidati alle elezioni, il rispetto delle norme statutarie, la tutela delle minoranze». Gli ultimi due sono profili rilevantissimi, di cui tuttora si occupa il giudice civile su istanza delle parti, chiamato a decidere sulla base delle norme statutarie, a prescindere da quanto queste siano rispettose del principio democratico. Vale ancora la frase di un’ordinanza emessa nella controversia politica e giuridica che nel 1995 dilaniò il Partito popolare italiano: «la finalità “pubblica” [del partito] si ferma sulla soglia costituzionale dell’apporto alla selezione elettorale del personale politico», essendo tutte le altre questioni relative alla vita interna, anche se relative al rispetto del «metodo democratico», «una vicenda meramente privata degli associati». Oggi come un quarto di secolo fa, è difficile pensare che sia giusto trattare questioni di democrazia “solo” come faccende private.

Circa la garanzia della partecipazione degli iscritti, già nel 1947 un giovane Leopoldo Elia aveva individuato due «princìpi generali [che] caratterizzano in modo inconfondibile la fisionomia instituzionale e politica di un partito»: la «concezione della disciplina in rapporto ai diritti e doveri degli iscritti» e la possibilità degli stessi iscritti di «influire sulla designazione» dei candidati alle cariche pubbliche. Dei due temi, carissimi a Elia e al suo maestro Costantino Mortati, ci si concentra sulla selezione delle candidature per mettere in luce la lacuna maggiore della disciplina vigente. Il legislatore chiede solo di indicare negli statuti dei partiti «le modalità di selezione delle candidature», senza pretendere forme minime di coinvolgimento delle iscritte e degli iscritti nella scelta: si sono ritenuti conformi alle norme statuti in cui chi aderisce al partito può solo fornire «ogni informazione utile» agli organi del partito, ai quali è riservata la scelta delle persone da candidare.

Se ciò era inopportuno in passato, diverrebbe addirittura inaccettabile con una legge elettorale – come il testo base all’esame della I Commissione della Camera – fondata sulle liste bloccate; anche un sistema proporzionale personalizzato “alla tedesca” o basato su collegi uninominali, però, trarrebbe giovamento da procedure di selezione delle candidature che coinvolgessero davvero le persone iscritte al partito. Anche l’Italia da almeno quindici anni pratica lo strumento delle primarie, ma ci si è sempre affidati all’iniziativa e all’organizzazione dei singoli partiti o delle coalizioni, spesso con corredo di polemiche sulle regole e sulla loro applicazione; si è provveduto a regolare quelle consultazioni con legge solo in qualche regione, con norme mai applicate o (come nel caso della Toscana) ormai abrogate. Sembra ormai arrivato il momento di introdurre con legge statale una disciplina generale delle primarie (lasciando alle fonti interne ai partiti alcune norme di dettaglio), prevedendo pure sanzioni che scoraggino il mancato rispetto del risultato di quelle consultazioni e prendano sul serio l’espressione di chi ha votato. Ciò che si è detto riguarda forse temi poco appetibili in un dibattito “popolare”; chi scrive, però, è convinto che rinviarli di nuovo sia un errore grave, che non possiamo permetterci. Forse questa è l’ultima occasione per reintegrare un numero rilevante di persone nel gioco della democrazia, senza che queste si sentano chiamate in causa solo al momento di votare (e magari, proprio per questo, scelgano di non farlo più).

Come riformare, cosa riformare

di Alessandro Morelli

Il fascino ben poco discreto delle riforme non accenna a diminuire. Continua a trovare ampio seguito l’idea che il mutamento delle regole giuridiche possa magicamente produrre quella palingenesi politica attesa da tempo. Un rinnovamento che, in verità, richiederebbe, più che sofisticate soluzioni istituzionali, un cambiamento radicale nel modo stesso di fare politica.

Non che le riforme non servano. L’assetto istituzionale esigerebbe anzi diversi interventi di ordinaria (e qualcuno anche di straordinaria) amministrazione. Il discorso sulle riforme andrebbe però sfrondato dalle connotazioni simboliche che lo rendono politicamente così attraente, ma che ne ostacolano, al tempo stesso, uno sviluppo razionale.

Nella campagna referendaria sul taglio dei parlamentari, la narrazione antipolitica e populista ha finito con l’incrociarsi con quella palingenetica. E nell’ambito di quest’ultima, alla revisione in gioco si è attribuita la capacità d’inaugurare una nuova stagione di riforme istituzionali.

La proposta presentata a inizio ottobre dal PD sembra voler dare consistenza alle promesse fatte nelle settimane che hanno preceduto il voto referendario. Ma qual è la logica che tiene i diversi interventi prospettati nel disegno di riforma?

Nella Relazione di accompagnamento al progetto, si afferma che l’intento principale sarebbe quello d’introdurre un “modello di parlamentarismo razionalizzato”, allo scopo di “rafforzare, coerentemente con i principi iscritti nella Costituzione del 1948, i meccanismi di funzionamento del rapporto di fiducia tra l’esecutivo e le Camere, garantendo una più sicura stabilità al Governo e restituendo al Parlamento il suo ruolo centrale nella definizione dell’indirizzo politico nazionale”. Subito dopo si aggiunge un’altra finalità: quella di realizzare “una puntuale e circoscritta differenziazione tra Camera e Senato in ordine alla composizione, alle funzioni e alle modalità di svolgimento dei lavori delle due assemblee, al fine di migliorare la qualità del procedimento legislativo e meglio rappresentare gli interessi territoriali con riferimento alle decisioni che più incidono sulle competenze delle regioni”. Un terzo obiettivo dichiarato è, infine, quello di “dare coerenza all’insieme delle innovazioni costituzionali iniziate con la riduzione del numero dei parlamentari e in corso di prosecuzione coi cosiddetti correttivi costituzionali già all’esame delle Camere”. Tra questi, l’abbassamento a diciotto anni dell’età degli elettori del Senato, il superamento del criterio della base regionale per l’elezione del Senato, la riduzione dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica in modo da mantenere il rapporto numerico originario con i parlamentari.

Non si può non essere d’accordo con almeno alcuni degli interventi prospettati, considerate la quantità e la varietà delle revisioni incluse nel progetto. Tuttavia, il problema sta proprio nella carenza di una “matrice razionalmente unitaria”, per usare una formula spesso impiegata dalla Corte costituzionale nei suoi giudizi sui referendum abrogativi.

Ci sarà tempo e modo di dedicare più approfondite analisi a ciascuna delle specifiche proposte avanzate. A una prima lettura, però, ciò che colpisce è l’assenza di un disegno chiaro sull’organizzazione e sul funzionamento delle Camere. Interventi diretti a introdurre un monocameralismo di fatto (quelli intesi a valorizzare il Parlamento in seduta comune) si affiancano ad altri volti a differenziare le Assemblee legislative, sul piano della composizione e delle competenze, e ad altri ancora funzionali a rendere le Camere più simili tra loro, accentuando il bicameralismo perfetto (i “correttivi costituzionali” ai quali rinvia la Relazione di accompagnamento).

Nel progetto ci sono almeno tre idee diverse del bicameralismo e sarebbe bene che si chiarisse, prima di tutto, verso quale di queste si vuole andare.

Se, poi, si guarda a tutte le altre proposte di revisione costituzionale, avanzate dalle forze politiche di maggioranza e di opposizione, il quadro complessivo delle riforme in cantiere appare estremamente confuso e in parte contraddittorio. Si va dal progetto di modifica degli articoli 71 e 75 della Costituzione (al momento in discussione presso la Commissione Affari costituzionali del Senato), volto a introdurre il referendum propositivo e a intervenire sul referendum abrogativo, con riguardo al quorum richiesto per la sua approvazione, a una proposta di legge, di iniziativa parlamentare, che abroga il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL), a una che prevede ancora la costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze e l’introduzione di una clausola di supremazia statale. A queste si aggiungono altre proposte volte a introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e a ridefinirne il ruolo, attribuendogli la direzione e la responsabilità della politica generale del Governo; a inserire in Costituzione la previsione di un quorum qualificato (pari alla maggioranza assoluta o a quella dei due terzi) per l’approvazione delle leggi elettorali della Camera e del Senato; a introdurre la tutela dell’ambiente tra i principi fondamentali della Costituzione.

L’avvio di un processo riformatore dagli esiti tanti incerti riporta con urgenza a un tema che non riesce a trovare spazio adeguato nel dibattito pubblico: quello della necessità di ripensare, prima di ogni altra cosa, lo stesso procedimento di revisione costituzionale. Da troppo tempo – da quando la maggioranza degli italiani sembrerebbe essersi convertita al “maggioritarismo” –, la procedura prevista dall’articolo 138 della Costituzione appare insufficiente a garantire il principio di rigidità della Legge fondamentale. Un principio, quest’ultimo, che non si pone in contrasto con il principio democratico, ma che anzi lo tutela e lo rafforza.

Certo, se si ritiene che la democrazia sia solo il governo della maggioranza, la rigidità costituzionale è semplicemente un intralcio (meno rigida sarà la Costituzione, più facile sarà per la maggioranza stessa adattarla alle proprie esigenze). Se però si ha un’idea diversa del principio democratico (più in linea con i dettami della Costituzione vigente) e si reputa che quest’ultimo prescriva un sistema nel quale la maggioranza legifera e governa nel rispetto delle minoranze e dei loro diritti, allora la rigidità acquista ben altro significato. In questa diversa prospettiva, infatti, l’aggravamento della procedura di revisione costituzionale consente una più ampia partecipazione al processo di modifica della Legge fondamentale dello Stato, quella che riconosce e garantisce le regole basilari del gioco politico e i diritti inviolabili della persona umana.

Occorrerebbe, innanzitutto, mettere in sicurezza l’attuale procedura di revisione costituzionale che, come le ultime esperienze hanno dimostrato, risulta più adatta a revisioni puntuali anziché a interventi di riforma ampia e organica della Costituzione. Con la riduzione del numero dei parlamentari, la maggioranza assoluta, prevista per l’approvazione delle modifiche costituzionali, non è più sufficiente: si dovrebbe prevedere come obbligatoria – almeno nelle ultime due delle quattro deliberazioni previste – la maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera. Il referendum, inoltre, dovrebbe essere consentito in tutti i casi e trasformato in un passaggio necessario del procedimento (come in altri paesi come l’Irlanda, la Danimarca, la Francia e l’Austria, dove è tale per le revisioni totali).

Ancora sull’esempio di altre esperienze straniere, si potrebbe, poi, pensare d’introdurre una seconda procedura alternativa, più rinforzata, per le riforme organiche, nel rispetto dei limiti assoluti alla stessa revisione (la forma repubblicana, i principi fondamentali e i diritti inviolabili): un iter che, ad esempio, potrebbe prevedere, subito dopo l’iniziativa, lo scioglimento delle Camere, l’indizione di nuove elezioni e l’attribuzione del compito di approvare la riforma alle nuove Camere.

Proseguendo lungo la via di un sano “riformismo benaltrista” (più che legittimo quando a essere discutibili sono le stesse finalità del processo di riforma promosso dalla maggioranza), si potrebbe pensare di correggere il tiro degli interventi, mirando non più soltanto al piano istituzionale ma anche a quello politico. E così potrebbe finalmente darsi attuazione all’articolo 49 della Costituzione sui partiti, con una legge che promuovesse in modo efficace l’adozione, da parte degli stessi, di un’organizzazione interna democratica. Un progetto ancora più ambizioso potrebbe essere quello di modificare la stessa disposizione costituzionale, adottando come modelli la Legge fondamentale tedesca, la Costituzione spagnola o quella portoghese, che prevedono espressamente che l’ordinamento interno dei partiti rispetti i principi della democrazia. Occorre valorizzare e potenziare adeguatamente i diritti di partecipazione politica dei cittadini, restituendo ai partiti il ruolo, assegnatogli dalla Costituzione, di formazioni intermedie necessarie al corretto funzionamento della democrazia rappresentativa. E, per far ciò, è necessario assicurarne la democraticità interna.

Se le forze politiche hanno sostenuto a larghissima maggioranza la riduzione del numero dei propri parlamentari, c’è forse speranza che la pressione di un’opinione pubblica consapevole e motivata possa indurli anche ad accettare regole che impongano loro di adottare un’organizzazione interna democratica.

Qualche riforma istituzionale, peraltro, potrebbe riguardare direttamente anche la grave situazione di emergenza determinata dalla diffusione del Covid-19, che ormai da parecchi mesi stiamo affrontando. Una condizione che, come mi è capitato di dire altrove, non dovrebbe ispirare l’adozione di riforme strutturali dell’ordinamento, poiché ciò che può andare bene in una situazione emergenziale risulta per lo più intollerabile in condizioni di normalità. A fronte dei continui conflitti tra Stato, Regioni ed enti locali – che pure dipendono da fattori politici sui quali il diritto non può fare molto – appare evidente, tuttavia, l’insufficienza della normativa in materia (quella relativa alla Protezione civile e quella sul Servizio sanitario nazionale), così come carente, sotto diversi profili, è anche l’impianto normativo definito negli ultimi mesi dall’Esecutivo per gestire l’emergenza che stiamo vivendo, un impianto che fa leva, com’è noto, sullo strumento del dpcm.

Una riforma di rango legislativo (non costituzionale, per i motivi che dicevo sopra) dovrebbe allora essere promossa anche in questo campo, per esempio, com’è stato proposto da un’autorevole dottrina, introducendo una legge-quadro in materia sanitaria idonea a definire, in modo chiaro, le competenze dei diversi livelli istituzionali nelle situazioni di emergenza.

La contrapposizione tra riformisti e conservatori è stata descritta spesso in modo caricaturale nel dibattito pubblico: i primi votati al cambiamento di un sistema istituzionale presentato come il peggiore dei mondi possibili; i secondi come grotteschi difensori di una costituzione mummificata, idolatrata come la “più bella del mondo”. Le cose non stanno così. È necessario capire, in un caso e nell’altro, cosa si voglia cambiare, come si intenda farlo e se c’è qualcosa che si desidera conservare. E, soprattutto, occorre provare a estendere il dibattito pubblico a temi centrali, che continuano a rimanerne fuori ma dalla cui trattazione non può prescindersi se si vogliono creare le condizioni per uno sviluppo sano delle istituzioni democratiche.