Il progetto di riforma degli artt. 71 e 75 Cost.: il fine giustifica i mezzi?

di Eva Lehner

L’esito confermativo del referendum celebratosi lo scorso settembre, con la conseguente promulgazione della legge costituzionale n. 1 del 2020, implica che qualsiasi riflessione relativa agli altri progetti di revisione costituzionale incidenti sulla rappresentanza politica venga rimodulata alla luce della avvenuta riduzione del numero dei parlamentari.

In questi giorni si discute molto della riforma elettorale, come se una legge ordinaria, al di là delle incognite quanto a contenuti e a sopravvivenza politica, possa legittimamente correggere una rotta tracciata a livello costituzionale.

Ancor più fervido è il dibattito sul florilegio di progetti di revisione costituzionale che, secondo le forze di maggioranza, dovrebbero risolvere o mitigare alcuni effetti di quello appena adottato, o peggio ancora, che sarebbero funzionali ai contenuti (incerti) di una futura legge ordinaria (appunto, quella elettorale). Per non parlare poi delle ipotesi di riforma dei regolamenti parlamentari che – stendendo un velo sulla perdurante anomalia di questa “fonte”, aggravata da prassi applicative sempre meno consensuali – attualmente si tengono alla larga da quel che è stato definito (Manetti) il vero grande scandalo del nostro diritto parlamentare: la deriva tecnica della questione di fiducia, specialmente in relazione ai maxi-emendamenti presentati dal Governo.

Prima e dopo la celebrazione del referendum costituzionale, in molti avevano sottolineato come il taglio dei parlamentari – oltre ad aggravare la minorità del Parlamento rispetto al Governo nell’ambito della produzione legislativa – avrebbe minacciato la tenuta dei quorum di garanzia previsti dagli artt. 83, 90 e 138 Cost.

Quelle stesse voci, oggi, rilevano giustamente come le prospettate riforme costituzionali “di aggiustamento” (dall’introduzione del sistema a base circoscrizionale per il Senato, alla riduzione del numero dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica, fino all’abbassamento a 18 anni dell’età richiesta per eleggere i senatori) lungi dal contenere l’effetto dirompente della legge costituzionale n. 1 del 2020, siano espressione di quella “regressione costituzionale” che mediante un revisionismo fine a se stesso – e spesso privo di coerenza interna – da almeno venticinque anni caratterizza un sistema politico diversamente populista, votato ai dogmi del leaderismo, della (chimerica) governabilità e del decisionismo (Azzariti, Luciani).

Si tratta di dogmi volti a rendere più agevole l’esecuzione di quelle politiche pubbliche tipiche della post-democrazia, da cui derivano – intrecciandosi – entrambe le cause della gigantesca crisi di responsività degli eletti nei nostri tempi: l’inaudita (dal secondo dopoguerra) amplificazione delle disuguaglianze e l’essenza del nuovo sistema politico, ormai composto da soggetti leggeri, cuciti attorno ad uno o più leader, con scarso radicamento territoriale, più simili a club e comitati elettorali che a partiti politici in senso proprio (Silvestri). Almeno, se si vuole intendere il lemma “partito” in senso novecentesco, come dispositivo indispensabile della rappresentanza politica e unico mezzo per emancipare lo Stato dalla soggezione a quella piccolissima parte della società che si usa chiamare “mercato”, facendolo poggiare sul sostegno delle masse lavoratrici, grazie al perseguimento di politiche di benessere generale e giustizia (Dogliani).

Tra le motivazioni del taglio dei parlamentari, la meno comprensibile era quella che associava la riduzione quantitativa degli eletti al loro miglioramento qualitativo: ammesso che si volesse alludere ad un incremento di responsività dei parlamentari – e che ciò possa essere correlato al loro numero – semmai è lecito supporre una relazione inversa. Se ci sono meno seggi da coprire, per le persone estranee ai cerchi magici delle segreterie dei partiti (dominatori incontrastati nella selezione delle candidature) i posti in lista saranno ancora più scarsi.

Abbinato al progetto di riduzione dei parlamentari, ne era stato presentato un altro (ancora pendente) che, a prima vista potrebbe sembrare invece più congruo rispetto al fine. L’idea è quella di introdurre nel nostro ordinamento un nuovo strumento di democrazia partecipativa. Secondo i sostenitori della proposta, lungi dal causare una contrapposizione tra elettori ed eletti, essa è finalizzata a fornire uno stimolo al Parlamento, coinvolgendolo in un procedimento idoneo a rafforzarne legittimazione e autorevolezza (Spadacini).

Il riferimento è alla proposta di legge costituzionale AC 1173 (d’ora in poi “progetto D’Uva”), di iniziativa parlamentare, che è ancora in sede di I deliberazione, essendo stata presentata alla Camera dei Deputati il 19 settembre 2018, ivi approvata in prima lettura il 21 febbraio 2019 con il nuovo titolo Disposizioni in materia di iniziativa legislativa popolare e di referendum, e infine trasmessa al Senato dove è in corso di esame presso la Commissione Affari Costituzionali, come disegno di legge costituzionale AS 1089.

L’intenzione è quella di trasporre a livello nazionale un istituto codificato in alcuni Statuti regionali italiani sulla falsariga dell’esperienza comparata (specialmente svizzera e statunitense) ossia la iniziativa popolare in senso proprio, spesso denominata popular initiative, per evitare la confusione con l’iniziativa legislativa popolare ex art. 71 Cost.

A differenza di quest’ultima, infatti, la popular initiative consente al corpo elettorale di approvare una proposta di legge presentata da un certo numero di elettori.

Ciò può avvenire in due modi: direttamente, quando la proposta proveniente da una determinata frazione dell’elettorato viene presentata ai fini della sua immediata sottoposizione alla deliberazione del corpo elettorale; indirettamente, quando il referendum sulla proposta popolare si tiene solo se l’assemblea rappresentativa non abbia approvato entro un certo lasso di tempo tale progetto o vi abbia apportato modifiche sostanziali.

Ed è esattamente questo lo schema insito nell’art. 1 del progetto D’Uva: «Quando una proposta di legge è presentata da almeno cinquecentomila elettori e le Camere non la approvano entro diciotto mesi dalla sua presentazione, è indetto un referendum per deliberarne l’approvazione. Se le Camere la approvano con modifiche non meramente formali, il referendum è indetto sulla proposta presentata, ove i promotori non vi rinunzino. La proposta approvata dalle Camere è sottoposta a promulgazione se quella soggetta a referendum non è approvata». Si prevede anche una modifica all’art. 75 Cost. volta a dimezzare il quorum strutturale del referendum abrogativo.

In questo caso, si diceva, la motivazione potrebbe essere quella di ovviare alla scarsissima responsività che gli eletti hanno mostrato negli ultimi anni rispetto ad alcuni pronunciamenti del corpo elettorale in sede referendaria, ad istanze derivanti dalle formazioni sociali, nonché a vere e proprie emergenze istituzionali come è avvenuto nel caso della materia elettorale. Occorre allora valutare la congruità dei mezzi prescelti rispetto al fine.

La dottrina ha già messo in luce i principali aspetti problematici della riforma: a) la questione dei limiti di ammissibilità delle proposte presentabili alle Camere in vista del referendum approvativo ; b) il problema derivante dalla previsione per il referendum approvativo di un’unica condizione di validità, recante un quorum strutturale dimezzato rispetto a quello attualmente previsto dall’art. 75 Cost. e che si vorrebbe estendere al referendum abrogativo; c) il potere del comitato promotore di rinunciare al referendum nel caso in cui le Camere approvino la proposta con modifiche non meramente formali ; d) il rinvio a una legge rinforzata ai fini dell’attuazione delle nuove disposizioni costituzionali, operata senza vincolare la discrezionalità legislativa in ordine ad aspetti essenziali, come la determinazione del numero massimo di proposte popolari presentabili (e il loro coordinamento), nonché l’individuazione dell’organo terzo che dovrebbe verificare se il testo approvato dalle Camere abbia apportato modifiche non meramente formali alla proposta di iniziativa popolare ; e) la definizione del ruolo del Presidente della Repubblica, rispetto alla possibilità o meno di effettuare un rinvio della legge approvata dalle Camere conformemente alla proposta popolare.

Per verificare se il progetto – lungi dall’introdurre uno strumento diametralmente conflittuale con il principio rappresentativo, tale da alterare l’equilibrio inscritto nella nostra forma di Stato tra le diverse modalità di esercizio della democrazia – sia davvero in grado di rafforzare la legittimazione del Parlamento, è indispensabile considerare lo stato in cui versa la rappresentanza in questo momento storico, tenendo conto del rapporto tra Governo e Parlamento e tra cittadinanza e partiti politici: poiché, in generale, è questo il modo di valutare la resa di tutti gli istituti di partecipazione popolare (Fraenkel).

Dunque, se è vero che persino Kelsen non era in linea di principio contrario alla popular initiative, i contenuti della riforma vanno valutati alla luce del contesto italiano: la resa incondizionata del Parlamento al Governo quanto ai contenuti della legislazione – che per la legge dei numeri, anche nell’ipotesi di un sistema elettorale realmente proporzionale, peggiorerà a causa del taglio dei parlamentari – si consuma di pari passo all’affermarsi di prassi istituzionali molto ambigue rispetto agli strumenti partecipativi già prescritti dal diritto vigente, con particolare riferimento ai referendum ex artt. 75 e 138 Cost. Al sistematico impegno profuso nell’ignorare o addirittura vanificare, in caso di esito sgradito, il ricorso ai referendum si accompagna – specularmente – il tentativo di forzarne una torsione in senso plebiscitario.

Sarà dunque necessario verificare se l’idea di revisione degli artt. 71 e 75 Cost. funga da argine o, al contrario, da viatico a questa deriva.

Il sospetto di un parallelismo tra rafforzamento del Governo e apertura a nuovi istituti di partecipazione, del resto, è già stato adombrato (Della Morte) guardando alla nostra storia costituzionale. In effetti, l’idea di introdurre una popular initiative indiretta, sul modello dell’art. 73 comma 3 della Costituzione di Weimar – formulata da Costantino Mortati, sia pur in una versione migliore di quella attuale – fu rigettata dall’Assemblea costituente: tuttavia, essa è stata regolarmente riproposta nei vari tentativi di revisione della II Parte della Costituzione susseguitisi dal 1983 ai giorni nostri.

La prova del nove, però, potrà giungere solo analizzando i possibili effetti di alcuni contenuti della riforma.

Cominciando dal problema relativo al rapporto tra democrazia e principio di discussione nel processo legislativo, intanto si tenga presente una dato preliminare: il progetto D’Uva riguarda non l’iniziativa ma la fase costitutiva del procedimento di formazione delle leggi, imponendo al Parlamento la mera ratifica di un articolato presentato da 500.000 elettori, in assenza della quale si attribuisce al corpo elettorale il potere di approvarlo o di respingerlo, mediante referendum deliberativo.

Il corpo elettorale dunque verrà chiamato a deliberare in modo binario (o no) su un testo nuovo, non condizionato in negativo dal contenuto di una legge vigente (come avviene invece nel caso del referendum abrogativo), che verrà proposto da 500.000 elettori, dopo essere stato redatto e discusso dai pochi componenti del comitato promotore. Tanto che a quest’ultimo viene attribuito il potere di rinunciare al referendum nel caso in cui le Camere approvino la proposta con modifiche non meramente formali.

Ora, nonostante il progetto preveda l’introduzione del requisito dell’omogeneità ai fini dell’ammissibilità delle proposte presentabili alle Camere, è evidente la differenza con il referendum abrogativo: esso consente agli elettori di esprimersi su un’opzione di principio, in relazione alla quale la discussione parlamentare ha già dispiegato i suoi fondamentali effetti nel processo legislativo, potendo – a sua volta – essere oggetto di confronto nella campagna referendaria. Del resto, nella giurisprudenza costituzionale relativa al referendum di cui all’art. 75 Cost., il divieto di manipolazione in senso stretto affonda le sue radici proprio nelle cause del rigetto della popular initiative da parte dei costituenti, che vollero invece un referendum abrogativo, configurandolo come riferito alle norme e non agli atti in quanto tali.

Tali cause sono immanenti al principio democratico: quel divieto muove dall’intento di salvaguardare la genuinità del voto. Pertanto non è certo questa la soluzione al problema della sistematica lesione del principio di discussione e di altre fondamentali previsioni di cui all’art. 72 Cost. da parte del Parlamento.

Altra conseguenza della proposta è la pericolosa vivisezione del procedimento legislativo, aliena alla democrazia tanto quanto le assemblee prive di iniziativa legislativa o sfornite del potere di garantire una discussione libera e partecipata. Infatti, l’iniziativa vera e propria, per quanto imputata al popolo rappresentato dai 500.000 elettori, sarà stata del comitato promotore (senza che il Parlamento possa fonderla o coordinarla con altre iniziative), così come la discussione. D’altro canto, nel caso di legge parlamentare conforme a quella iniziativa, la discussione non avrà avuto luogo, se non in ordine a questioni meramente formali, perché stavolta sarà stato il Parlamento a doversi limitare ad una votazione secca del progetto.

Per restare all’interno delle Camere, un ulteriore effetto sarebbe quello di diminuire lo spazio – già piuttosto angusto – a disposizione dell’iniziativa parlamentare: dalla XIII Legislatura a quella odierna, la percentuale di leggi formali ordinarie adottate su iniziativa del Governo giunge a sfiorare in media quasi l’80% del totale.

Dunque, anche se il progetto D’Uva indicasse il numero massimo di proposte popolari – recependo il coro unanime della dottrina – non saremmo certi di evitare due esiti esiziali per la forma di Stato: il primo è la trasformazione del referendum deliberativo da strumento eccezionale a strumento ordinario di produzione legislativa, considerando l’esiguità del termine concesso alle Camere per adottare le proposte popolari; il secondo, altrettanto grave, è la definitiva scomparsa di atti legislativi adottati su iniziativa di singoli parlamentari.

Passando invece ad una valutazione della riforma nel contesto dei rapporti tra cittadinanza e partiti politici, l’introduzione della popular initiative potrebbe rappresentare l’ennesima manifestazione del pericoloso fenomeno di fuga dalla responsabilità politica posto in essere dalla rappresentanza. Come è stato rilevato, invece di contrastare il potere del Governo all’interno delle Camere, sia l’opposizione, sia le forze di maggioranza tendono a delegare la funzione di indirizzo e controllo parlamentare al Capo dello Stato e alla Corte costituzionale (Manetti). Ciò, oltretutto, minaccia l’imparzialità di questi organi e non a caso tra i punti critici del progetto D’Uva la dottrina ha sottolineato i rischi di esposizione politica che derivano alla Corte costituzionale a causa del giudizio di ammissibilità delle proposte popolari (Palici Di Suni, Bellomia) e al Presidente della Repubblica a causa del silenzio del testo in ordine al potere di rinvio ex art. 74 (Morelli, Malvicini).

A questo fenomeno si accompagna la sostituzione del compromesso parlamentare con il ricorso alle consultazioni referendarie come strumento di legittimazione delle proprie decisioni: ci si affida, dall’alto, ad una dimostrazione di forza che è immanente ad ogni forma di appello al popolo. Quando poi l’appello al popolo è fatto «contro la Costituzione», siamo di fronte all’atto più eversivo che possa essere compiuto nello stato costituzionale (Dogliani). Qui il riferimento riguarda l’appello al popolo operato dal Presidente del Consiglio dei Ministri per il referendum costituzionale del 2016.

Tuttavia, non si deve sottovalutare il modo in cui la stessa classe politica si sta ponendo nei confronti del referendum ex art. 75 Cost. Proprio in relazione alle vicende del referendum abrogativo, emerge un’altra questione che induce a dubitare della efficacia del progetto D’Uva come rimedio alla scarsa responsività degli eletti. Riassuntivamente, basta confrontare la differenza di trattamento tra l’esito del referendum del 1993 sul sistema elettorale – per vent’anni ritenuto sacro e inviolabile dalla classe politica che in esso trovò la propria legittimazione – e quello del 2011 relativo alla c.d. privatizzazione dell’acqua. Per quanto concerne la consultazione del 2011, la prima a raggiungere il quorum strutturale dopo ben 6 tornate svoltesi tra il 1997 ed il 2009, il Governo (con la successiva complicità del Parlamento) tentò di vanificarla ventitré giorni dopo la pubblicazione del responso referendario.

Ora, qui non si tratta di aderire alla giurisprudenza relativa al c.d. divieto di ripristino delle norme abrogate in via referendaria, e si può anche concordare sulle critiche rivolte alla sent. C. Cost. n. 199 del 2012. Forse, più che di “divieto” dovrebbe parlarsi di mera “sospensione” del potere di ripristino: del resto essa è ancorata a generiche condizioni temporali e materiali (assolutamente a portata di legislatore) che probabilmente sono giustificate dalla ratio dell’art. 75 Cost. Il punto è che, da un lato, oltre un certo limite è impossibile difendere i responsi referendari da interpretazioni mistificanti e abusive, a conferma della necessità di rigettare le suggestioni schmittiane insite nell’idea della valenza super-legislativa del referendum (e un domani, se fosse, delle leggi adottate con la popular initiative) che tradisce una intima repulsione per la democrazia, negando solo ai cittadini il potere di avvicendarsi (o di cambiare idea) nella decisione legislativa (Luciani).

Dall’altro lato, se questo è l’atteggiamento della rappresentanza rispetto al referendum abrogativo, il problema si riprodurrebbe esattamente negli stessi termini con le leggi deliberate dal corpo elettorale. Anzi, potrebbe aggravarsi: la scelta di un quorum strutturale dimezzato rispetto a quello dell’art. 75 Cost. e la volontà di estendere tale opzione anche al referendum abrogativo renderebbe certamente più agevole minimizzare, travolgere o semplicemente ignorare responsi popolari dotati di una minore legittimazione politica.

Infine, un accenno ai limiti di ammissibilità previsti dal progetto per le popular initiative. Accogliendo le osservazioni della dottrina, tali limiti sono stati redatti adattando al nuovo istituto una parte della giurisprudenza costituzionale relativa all’ammissibilità dei referendum: «Il referendum non è ammissibile se la proposta non rispetta la Costituzione, se è ad iniziativa riservata, se presuppone intese o accordi, se richiede una procedura o una maggioranza speciale per la sua approvazione, se non provvede ai mezzi per far fronte ai nuovi o maggiori oneri che essa importi e se non ha contenuto omogeneo».

Si tratta tuttavia di previsioni che, oltre a lasciare margini troppo ampi alla discrezionalità della Corte costituzionale, non risolvono il principale cleavage che ha spaccato eletti ed elettori negli ultimi anni. Il riferimento è alla costituzionalizzazione dei vincoli che, specialmente in esito alla legge costituzionale n. 1 del 2012, lasciano davvero scarse opzioni in ordine agli indirizzi di politica economica. Non sono pochi gli ostacoli oggi incombenti sul legislatore rispetto all’ipotesi di ri-pubblicizzazione di beni o servizi o a politiche fiscali volte alla redistribuzione del reddito o, ancora, alla soluzione dei problemi salariali e occupazionali.

Guardando all’esperienza referendaria in materia lavoristica, si prenda ad esempio la mancata uniformità nell’applicazione del divieto di manipolazione emersa in ordine a due questioni cruciali: l’ammissibilità del referendum sull’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, che cambiò per sempre le relazioni sindacali (sent. n. 1 del 1994) e l’inammissibilità (a prescindere dalla coeva effettiva carenza del requisito di omogeneità) del referendum che era stato promosso dalla CGIL sull’art. 18 (sent. n. 26 del 2017).

Di certo, per definizione le popular initiative non soggiacciono al divieto di manipolatività. Resta però in agguato il rischio di letture oscillanti del requisito di omogeneità nonché della preclusione relativa alle iniziative riservate (oggetto di annose diatribe, fatta eccezione per quella governativa sulla legge di bilancio). Inoltre, per quanto attiene al rispetto della Costituzione – considerando il profluvio di norme interposte che ormai costella la Carta e che il progetto è destinato ad incrementare – sarebbe stato meglio posticipare ogni controllo a un eventuale giudizio di legittimità costituzionale sull’atto legislativo popolare, limitandosi a specificare il valore meramente ordinario di quest’ultimo. Tornando all’esempio del diritto del lavoro, non è affatto detto che una popular initiative sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori supererebbe il vaglio di ammissibilità della Corte costituzionale in modo più agevole rispetto ad un quesito ex art. 75 Cost.

In definitiva, se il progetto D’Uva ha poche chance di imporre il perseguimento delle politiche agognate da larghe fasce della cittadinanza, a che pro ignorare la lezione di Weimar, invece di dedicarsi alla democratizzazione interna dei partiti sulla quale si regge l’equilibrio tra partecipazione e rappresentanza nello stato costituzionale contemporaneo?

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